Cucinare è la più bella dimostrazione d’amore
Esistono molto forme d’arte e tra le più nobili collocherei la cucina.
Esatto, quella forma d’arte commestibile che tutti assaggiano e assaporano, quella forma d’arte che non tutti, però, riconoscono come tale. L’arte cos’è? Per me fare arte significa suscitare emozioni, spacciare bellezza e riempire cuori. In questo caso direi: riempire stomaci.
Mangiare, bere, dormire e fare sesso sono necessità che ognuno di noi possiede, ci accomunano, ci avvicinano. A prescindere dal primato culinario che, un po’ per campanilismo, un po’ per sana oggettività, io collocherei nel caro stivale, non mi impunto a descrivere quanta poesia contenga un bel piatto di bucatini all’amatriciana o una pizza margherita, oggi mi piace soffermarmi, invece, sul sentimento.
A riempire stomaci siamo più o meno bravi, ma a riempire stomaci con contorno di anima e cuore chi ci riesce? Circa un anno fa, mio nonno chiamò ogni membro della nostra numerosa famiglia perché non riusciva a preparare il brodo vegetale.
Passare, scolare, condire non sono mai stati il suo forte, lo ha sempre fatto la nonna, ma quel giorno era diverso. La nonna tornava da un’operazione difficile alla bocca e il nonno decise di fare un tentativo. Si armò di pazienza, virtù che non appartiene ai nonni, di pentole e vari utensili da cucina e iniziò a smanettare, ma nulla: il risultato fu un buco nel brodo.
Triste, il nonno iniziò il suo giro di telefonate per ricevere sostegno, tutti noi, in massa, lo aiutammo col famoso brodo che poi, alla fine, mia nonna mangiò con lo sguardo riconoscente di chi sta ricevendo amore. Forse non sono stata chiara.
Ci riprovo: ho sempre amato cucinare, per me non è difficile né problematico mettermi ai fornelli e spadellare qua e là. Ho tagliato milioni di cipolle, ho pianto per loro, ho bruciato con l’olio parti del corpo insospettabili, ma alla fine, mischia, sporca, lecca cucchiai, sono sempre riuscita a creare dei piatti appetitosi.
C’è solo un momento in cui le mie mani si fermano, il cervello si inibisce e cado a pezzi come le vittime di Beatrix Kiddo. Quando fa caldo. Il malato di caldo è egoista, trattiene il ventilatore e mette le mutande solo in casi estremi.
Il malato di caldo sono io e tutti i miei fratelli, il malato di caldo è un povero essere da compatire, vive la vita estiva come fosse in un forno e ci muore. Ma il malato di caldo non può non nutrirsi, e come fa un malato di caldo ad accendere i fornelli e a trovare la forza di cuocere la pasta?
Molto semplice: ama.
Tornato da una rovente giornata di lavoro, stanco e sudato, il mio lui non può non aver trovato in tavola un manicaretto ben assortito, servito in modo rocambolesco, leggermente rustico, ma fatto da me per lui. Così, venuta a conoscenza dei suoi desideri, la malata di caldo ha sfoderato il ventilatore e si è messa ai fornelli per rendere felice la sua metà.
Una storia commovente, fatta di fagioli, cozze e pasta ammescata. Il problema di certi amori è che non sono buoni di sale, scipiti, che tradotto per gli amici in cima vuol dire “insipidi”.
Per esempio, ho conosciuto coppie che non hanno mai provato l’ebbrezza di cucinare qualcosa l’uno per l’altra, nessuno di loro ha mai chiesto al partner come preferisse la pasta, se desiderasse aceto o limone oppure se, sporcandosi di sugo, volesse un po’ più salsa o meno.
Fare l’amore con la cucina vuol dire rispettarsi, assaggiare, assaporare. Non vuol dire necessariamente cucinare pesante, ingrassare, anzi, vuol dire imparare a mangiare, insieme, con qualche trasgressione perché certe volte è meglio un brodino fatto con amore che il pesce al cartoccio fatto da uno sconosciuto.
Amare e cucinare sono come il vino e le percoche, puoi mangiarle separatamente, ma poi che sfizio c’è?
Benedetta De Nicola