Pazienza stretta sul petto: diario di una modella
di Federica A. Di Nunzio
Feci un respiro profondo pensando di dover annegare in una pozzanghera d’acqua nera, presi fiato tenendo il cappuccio stretto fra le mani e lo tirai su con la stessa meccanicità con la quale avrei agito in qualsiasi altra mansione quotidiana. Diventò buio. In quel momento conobbi perfettamente la sensazione che un paio di cosce provano stando strette nei collant da settanta denari, più inspiravo più il tessuto elastico aderiva alle narici impedendomi di inalare la regolare quantità di ossigeno.
«Non respiro!» sbottai tentando di strapparmi il cappuccio dal viso.
«Non respiro!» ripetei in tono esasperato.
Sentii una voce dall’accento africano chiedere aiuto e con un colpo secco mi ritrovai all’esterno. Erano tutti lì imbambolati a guardarmi ma l’attimo successivo ripresero i loro compiti, a differenza del coreografo che mi esonerò dall’indossare il cappuccio in passerella qualora non l’avessi desiderato.
Mi voltai a guardare l’ingresso e vidi lei, nella sua forma perfetta, che fissava il palcoscenico con lo sguardo illuminato dai fari. Senza esitazione prese fiato e calzò il cappuccio, continuava ad essere bella anche col viso coperto.
Imitai il gesto. Avevo vissuto momenti peggiori, pensai. Sarebbe durato poco, giusto il tempo di una passeggiata, dovevo vivere la creatività dello stilista vestendomi della sua arte nella maniera più pura e diretta possibile, desideravo accogliere il messaggio nella sua completa pienezza, non potevo perdere nessun pezzettino, non volevo. Dovevo portare a termine la comunicazione: era il mio obiettivo.
Posai un piede davanti l’altro ricordando inverosimilmente i miei primi passi, mi sentivo goffa e pesante
così mi sforzai di pensare alla leggerezza. Non appena arrivai al centro del palco fui abbagliata dai fasci di luce, avevo recuperato quasi del tutto la vista, la respirazione continuava ad essere in deficit ma immaginai di essere sott’acqua e di dover resistere per poter ammirare la maestosità della barriera corallina.
Con quest’idea in mente affrontai il primo ostacolo: allungai il piede in avanti aspettandomi di dover scendere il primo scalino continuando a tener il capo eretto come ogni perfetta modella fa scendendo le scale. Più lo allungavo più continuavo a sentire terreno pianeggiante sotto il tacco, ripeti il gesto per tre, cinque volte finché, arrendendomi, abbassai lo sguardo, capii di dovermi spostare ancora in avanti e tenendomi la gonna rigida tra le mani arrivai all’ultimo scalino fiera di non essermi ritrovata col naso schiacciato per terra.
La musica, stile colonna sonora di Dario Argento, mi tormentava appesantendo la vergogna della difficoltà appena incontrata, confidando che gli effetti speciali fossero abbastanza attraenti da aver distratto l’attenzione degli spettatori. Giunta all’entrata della passerella mi convinsi che avrei dovuto recuperare sfoderando il meglio delle mie abilità da “mediatore d’abiti”.
Non appena avanzai col primo passo cambiò il ritmo della musica segnando ogni singola falcata come il tocco di un martello. Percepivo lo stupore sui volti della gente pur non riuscendo a distinguerli nitidamente. Assistevano ad un via vai di manichini neri rivestiti di ecopelle e origami di carta, grandi e rigidi volumi. Pensavo al genio che aveva ideato una simile processione regalando emozioni d’impatto non solo a chi sedeva tra le file della platea ma anche e, in particolar modo, alle modelle che avevano ceduto del tutto la loro bellezza in virtù dell’importanza del tessuto; era la forma più estrema del fashion design, un silenzioso contratto, firmato dal momento in cui indossavi il frutto dello stilista.
Tra un’uscita e l’altra restavo seduta, incantata dalla visione di corpi femminili nudi che correvano da un
capo all’altro del chiostro usato come backstage: giovani ragazze filiformi, che tenevano i seni coperti con le sole mani, saltavano sulle valigie abbandonate per terra come abili atleti in una corsa ad ostacoli, aprivano le braccia fermandosi davanti la postazione dello stilista successivo invitando con questo gesto a farsi vestire.
Talco su piedi e fianchi per il troppo caldo fungeva da lubrificante per far scivolare gli abiti addosso, gli assistenti degli stilisti mettevano le mani dappertutto, lungo le gambe, la vita, le braccia; le make-up artist sul viso, con cipria per tamponare il sudore e pennelli per ritoccare labbra e gote; gli hair stylist con le forcine tra i capelli, pronti a raccoglierli fissandoli con una nube di lacca; infine, le urla degli stilisti in preda all’agitazione, all’estrema aspirazione di rispettare ogni aspettativa alla perfezione. Il caldo di agosto nella terra degli ulivi e dei fichi non aiutava a mantenere la calma, si perdeva facilmente il controllo delle mani tremanti mentre reggevano la stoffa da un lato e il fazzoletto di cotone imbevuto di sudore dall’altro.
Incontri la passione dell’artista, le stringi la mano e le parli, non appena ti invitano ad evitare in tutti i modi di calpestare la coda dell’abito, a costo di reggerti sulle loro spalle sollevando i piedi da terra. «La moda non è democratica» mi dicevano, puoi restare ore in piedi in fila, svestita, con le braccia strette sul petto e il viso struccato in attesa di essere selezionata dallo stylist che analizza misure, altezze, centimetri adatti per dar vita alle sue opere.
I giudizi a voce alta non si fanno attendere:
«Vita troppo stretta»,
«Gambe troppo corte»,
«Piede troppo piccolo».
E passi da stilista in stilista ascoltando il verdetto in silenzio.
«Fare la modella non è un lavoro semplice!» continuavano a dirmi «È un lavoro di estrema pazienza!». Capii in fretta la veridicità di quelle parole ma, nonostante tutto, continuai a pazientare imparando ad apprezzare ciò che più mi rendeva fiera: ascoltare l’abito indossandolo, sentendolo a contatto con la pelle e convertire in passi, gesti, movimenti. Questo era ciò che avevo appena appreso da quella misteriosa lezione. Non mi ero presa mai del tutto sul serio come modella, vivevo ogni step, antecedente al grande evento, in piena disinvoltura e serenità, timidamente disinteressata nel considerarlo come un vero mestiere. Entravo completamente in uno stato di catalessi, tiravo su il petto, rilassavo i muscoli del viso e assumevo la mia perfetta postura, come un soldato schierato tra le righe.
Camminavo. Camminavo, camminavo facendomi trasportare dalla musica, ne seguivo il ritmo, ancheggiavo e muovevo le braccia rispettando, come una marionetta, gli ordini impartiti dall’esperto burattinaio che gestiva i fili. L’alta moda mi faceva quell’effetto e avveniva in maniera così naturale da rimanere, io stessa, interdetta. Non altrettanto facile fu l’apprendimento dell’uso del mio corpo. La pudicizia non è nominata tra i parametri posseduti da una modella, il rispetto e l’eleganza sono requisiti necessari ma l’imbarazzo, manifestato attraverso qualunque forma di nascondiglio personale, non è un buon biglietto da visita.
Continuando a pensare in termini di comunicazione, il corpo diventa il mezzo con il quale l’oggetto raggiunge il destinatario, così come la penna e la mano fanno da tramite tra lo scrittore e le parole.