Quella metro per la vita
di Benedetta De Nicola
Ci sono alcuni incontri che non smetti mai di ricordare, ne conosci i dettagli, le appendici e rimangono lì, scritti sulla pelle. Sono le 19:00 e un signore che somiglia a Maradona si dirige ai tornelli, lo hanno appena fregato, gli hanno fatto fare un biglietto sbagliato per poter aggiudicarsi quei pochi spiccioli di riserva. Lui è Ben Tayeb, è incazzato e sbraita in francese, lo vedo in difficoltà e gli offro il mio aiuto. Così è cominciata un’amicizia a distanza tra me e quello che scoprirò essere un missionario UNICEF, parla tante lingue e viaggia moltissimo. Si trova in gita a Napoli e, seppure sia stato appena fregato, la trova una delle città più belle del mondo. Ormai, dice, siamo fratelli, così, con affetto, mi concede questa intervista.
Come sei arrivato a lavorare per l’UNICEF?
“Ci sono arrivato dopo una formazione come coordinatore di missioni umanitarie di sei mesi nel centro di tecniche internazionali a Parigi, poi uno stage per aiutare i francesi di cui sono ancora volontario e dopo sono giunto all’UNICEF.”
Potresti spiegarmi con parole semplici qual è il tuo lavoro?
“Lavoro come interprete multilingue e missionario.”
Cosa preferisci del tuo lavoro?
“Amo trasmettere affetto e aiutare i bambini poveri a vivere come tutti i bambini del mondo.”
Lo consiglieresti ai ragazzi di oggi?
“Ci sono sempre più giovani che lavorano o fanno volontariato nel campo umanitario, quindi sì.”
È pericoloso lavorare con l’UNICEF?
“Non è pericoloso lavorare in campo umanitario, è piuttosto pericoloso non aiutare i bambini contro la fame e la malattia.”
Può essere questo lavoro la stessa cosa della vita?
“Nessun lavoro è uguale alla vita.”
C’è un episodio che ti ha maggiormente suscitato emozioni in questo lavoro?
“No, non un episodio. I tempi migliori sono quando aiuti i bambini e li vedrai pochi anni dopo in buona salute, soddisfatti, è l’orgoglio del dovere compiuto.
Non è la tua fame, ma contro la fame.
Non benevolenza, ma bene.”