“V” di violenza e vergogna
di Cinzia Abis
Vorrei qui proporre alcune considerazioni di ampio respiro teorico, individuando e toccando temi che non stanno tutti entro il perimetro della violenza di genere, pur attraversandolo e muovendo da esso.
Questa, appena abbozzata, la stazione di arrivo; quella di partenza si situa invece in certe esperienze personali, vissute in due occasioni diverse. In entrambi i casi, viaggiavo da sola in treno; in entrambi i casi, ho vissuto personalmente forme di molestia e abuso sessuale.
Avevo circa 24 anni quando salii, di domenica, sul regionale che nasceva a Roma per terminare la sua corsa a Napoli, città in cui vivevo come studentessa fuorisede. Il treno era molto affollato; nella carrozza che scelsi a stento trovai un posto libero. Subito si fecero notare, per la loro condotta, gli sconosciuti che occupavano tutti e quattro i sedili accanto al mio. Erano quattro ragazzi, quasi certamente più giovani di me, dei quali presto si fece identificare il “capobranco”.
Prese infatti a fissarmi e a commentare il mio aspetto, senza smettere di farlo nonostante cercassi d’interromperlo rivolgendogli di tanto in tanto lo sguardo, per comunicargli senza parole che potevo ascoltarlo. Ma quello sconosciuto, forse per divertire il suo seguito e mostrargli la sua audacia, la sua tracotanza, riprendeva puntualmente a commentare ora la mia bocca, ora i miei seni.
Intuivo nei suoi toni e nella scelta delle parole rabbia e disprezzo. Faceva di me, senza alcun rispetto, un oggetto sessuale da osservare, disprezzare e, al tempo stesso, su cui riversare le proprie fantasie erotiche.
Mi costringeva a vedermi guardata e giudicata.
Eppure l’imbarazzo, il disagio, la paura, presto fecero scattare in me le molle della dignità, dell’amor proprio ferito.
Trovai triste e intollerabile che un perfetto sconosciuto si concedesse un simile affronto alla mia persona, violando – con aggressività dichiarata e violenza verbale – quella tacita norma sociale che il sociologo americano Erving Goffman chiamava ‘’disattenzione civile’’, che gli estranei sono soliti rispettare in situazioni di interazione e prossimità fisica.
Oltretutto quel ragazzo mi stava offendendo con l’intenzione di farlo. Sebbene avessi provato a difendermi, rendendomi conto dell’intenzionalità dell’aggressione, riuscì a instillare dentro di me una goccia di vergogna.
Quella goccia per sua stessa natura a poco a poco si espanse. Come una macchia d’olio.
Qualche anno fa, diversi anni dopo quest’accaduto, mi capitò di consultare un libro dal titolo “La vergogna. Saggio di psicologia dinamica e clinica”, di Marco W. Battacchi e Olga Codispoti.
Fu così che appresi che il sentimento della vergogna nasce da un’esperienza di umiliazione a sua volta dovuta, dal punto di vista di chi la subisce, alla disconferma di un’aspettativa sacrosanta, idealmente inviolabile. In sintesi, anche se variamente declinata, si tratta dell’aspettativa che si venga rispettati.
La vergogna inquinò i miei pensieri su quanto stava accadendo: se accadeva a me, proprio a me, e non ad un’altra passeggera presente nella mia stessa carrozza doveva esserci un motivo, una colpa originaria tutta mia. Una sorta di stigma che mi rendeva vittima, preda elettiva agli occhi di un branco di ragazzini crudeli e maleducati.
Qualcosa che mi portavo addosso, sulla faccia e sul corpo, di persona e di donna. A un certo punto mi alzai, delusa peraltro dall’assoluta indifferenza della gente, che non solo non intervenne ma non mi dedicò nemmeno uno sguardo rassicurante di solidarietà. Mi alzai e mi posi davanti al mio “carnefice” per affrontarlo, guardandolo negli occhi.
A voce alta, gli dissi che non era affatto normale che si fosse permesso di comportarsi in quel modo e che stavo per cambiare posto perché avevo già sopportato troppo a lungo le sue gravi mancanze di rispetto. Lui negò il fatto, forse perché non si aspettava di essere ripreso da me e davanti ad altri. Mentre stavo per andarmene, un uomo si degnò di chiedermi: ‘’Tutto bene, signorina?”.
Non ricordo cosa farfugliai. Cambiai carrozza; ero spaventata e temevo ritorsioni. Mi rilassai soltanto quando dal finestrino vidi i quattro ragazzi scendere alla stazione prima della mia.
L’altro episodio di violenza accadeva circa un anno e mezzo fa, quella volta ero di ritorno da una giornata passata a Napoli, su un treno che mi avrebbe portata a Villa Literno, nell’agroaversano.
Scelsi un posto qualsiasi, ma accanto al finestrino e nel senso di marcia. La carrozza era quasi vuota, ma accanto al finestrino speculare al mio c’era un giovane uomo maghrebino.
Il mio istinto mi diceva di cambiare posto, di non isolarmi, forse allarmato dal fatto che non era un treno su cui abitualmente salivo. Ma quel giorno ero davvero fisicamente stanca e restai seduta. Il treno ormai era in corsa e l’uomo si accorse di me. Cominciò a guardarmi e a muoversi in modo da farsi notare. Potevo vederlo con la coda dell’occhio, rivolta com’ero verso il finestrino. A un certo punto, si alzò di scatto e perciò mi voltai a guardarlo.
Quando lo vidi dirigersi verso la toilette, che restava purtroppo nel mio angolo visuale, nonostante cercassi di restringerlo quasi spiaccicando la mia faccia al vetro, capii immediatamente le sue intenzioni.
Eppure, una piccola parte di me mi diceva di restare calma, che quella triste previsione era solo frutto di una fervida immaginazione. Si sbagliava. L’uomo cominciò a masturbarsi lasciando la porta aperta, standosene in modo che io potessi vederlo. Ero molto confusa.
Poco dopo il treno si fermò. Una schiera di persone in fila gli passarono accanto, così mi infilai in quella coda di gente che stava per scendere. Cambiai carrozza, ma lui mi seguì sedendosi in modo che io potessi vederlo: questa volta la masturbazione la simulava.
Ero spaventata più di prima, proprio per il fatto che mi avesse pedinata. Gettai lo sguardo nel buio pesto oltre il vetro, cercando un appiglio su cui aggrapparlo, ma non lo trovai. A un certo punto mi alzai per lanciargli un’occhiataccia. Volevo dirgli in silenzio del mio disappunto. Di nuovo cambiai carrozza. Mi sedetti di proposito accanto ad altre tre donne, denunciando il fatto in cerca di solidarietà.
Rimasi sbigottita dalla loro indifferenza.
Di nuovo, in segno di disappunto, mi alzai per cambiare posto. Questa volta avevo trovato una coppia di giovanissimi, un ragazzo e una ragazza, entrambi gentili e cordiali. Mi rassicurarono: a Villa Literno, dove avrei aspettato un altro treno per arrivare a casa, non avrei trovato il bar della stazione chiuso. Una volta arrivati, per l’ennesima volta li ringraziai di cuore.
Fuori al bar della stazione, fermai un uomo in divisa per denunciare l’accaduto, tenendo il tono di voce alto perché tutti sentissero e partecipassero. La mia non era una caccia al ladro, anzi. Era una rottura del silenzio, era volutamente traffico di parole, un tentativo di contrastare l’indifferenza di tutti e la rassegnazione delle donne rispetto a certi destini.
Così tanta indifferenza da non manifestare solidarietà a un’altra donna; nei casi peggiori, così tanta scarsa empatia da guardarla con biasimo, forse per il suo tanto rumore per niente. Tanto rumore per cosa, in effetti? Mica c’è stata qualche forma di violenza carnale o, addirittura, stupro. No, per fortuna no. Ma è violenza sessuale, abuso e non semplice molestia, costringere l’altro a partecipare a pratiche sessuali anche solo mettendolo nella condizione di vedere, di subire il proprio esibizionismo.
Nel succitato libro sulla vergogna, da qualche parte lessi che questa si genera anche dal non rispetto del pudore e della volontà dell’altro.
Quando tornai a casa scrissi sull’episodio un lungo post, su Facebook. Con la scrittura guardo meglio e da una certa distanza. Confermo qui e ora alcune riflessioni di allora. Per il mio ‘’aggressore’’ provavo più pena che rabbia. Non ritrovai in lui l’aggressività e la misoginia che avevo riscontrato nell’adolescente italiano.
A mio avviso, invece, portava addosso il destino tragico della mancata integrazione sociale di tanti giovani migranti, esclusi o emarginati, ridotti in condizioni materiali degradanti. In condizioni di disagio sociale e sofferenza psichica quali forme di corteggiamento sono realmente possibili? Mi chiedevo e mi chiedo. Quali relazioni con l’altro sesso si possono verosimilmente costruire? Si tratta spesso di giovani che vivono in condizioni di sradicamento e spaesamento culturali, che camminano su macerie e buche. Quale vita culturale possono condurre, che dia forma anche all’erotismo?
Per concludere, tanto nel primo caso quanto nel secondo il dato che emerge mi pare questo: è necessario che ognuno dia il proprio piccolo contributo perché l’umanità conservi la propria umanità, rispettando cioè l’altro da sé, così diverso eppure così simile.