Conveniente congettura congeniale al convegno
Avete mai partecipato a un convegno della vostra università? Allora sapete di cosa sto parlando.
Quando un relatore, messa da parte la grandezza di colui che parla, legge un canovaccio durante un convegno, l’unica espressione che sovviene è: «Uà».
“Uà” è quella tipica espressione napoletana che in base all’intonazione della voce può esprimere stupore, noia, leggera gioia della scoperta. Quando un relatore legge, il nostro “uà” è, di solito, di triste noia. Diciamolo, ascoltare venti minuti di soporifera lettura non giova a nessuno. Il relatore crede che gli convenga ottimizzare i tempi leggendo un’accattivante relazione in merito agli argomenti trattati. Crede che questa modalità sia congeniale al fine ultimo e continua, continua, mentre il pubblico, annoiato, sogna di correre fuori, levarsi i vestiti e sentirsi libero da ogni congettura.
Dov’è l’empatia? Mio caro professore, lei è superbo per cultura, ineguagliabile nello charme, ma lei non sa comunicare.
Coinvolgimento, passione, tono della voce, sono elementi che sottovalutiamo; anche la pizza, fatta senza amore, può essere poco più che un pezzo di pasta cresciuta col pomodoro.
Creare un contatto con l’interlocutore e curarlo spiegando il senso delle proprie parole è l’ingrediente segreto per una discussione accesa, un monologo ad alta voce senza tener conto del prossimo è una forma di approssimazione empatica. Manzoni diceva “vero per soggetto, utile per iscopo e interessante per mezzo”, sì, ma se appena aprite bocca vedete il vostro pubblico inspirare, socchiudere gli occhi e rilasciare un suono, state attenti: potrebbe essere un “uà”.
Benedetta De Nicola