Noi siamo la nostra storia
di Ferdinando Ramaglia
Chi siamo ce lo dice il tempo, non il sole, né la pioggia, né la luna; la nostra storia, ciò che ci portiamo dietro. Ma non tutto ciò che ci accompagna è gradito, spesso vorremmo cancellare dalla nostra memoria eventi angosciosi, le paure. Spesso vorremmo modificare il nostro passato, per non aver sofferto in futuro. Tutto questo ci porta a non accettarci, a non vivere la verità che è in noi, quando niente è più autentico di quello che siamo hic et hunc, nonostante le ferite e gli acciacchi.
Carl Rogers, un caposaldo della psicologia statunitense e fondatore dell’approccio umanistico sostiene:
“Quel che sono è sufficiente, se solo riesco ad esserlo”
È proprio quell’ultima frase ad essere la vera difficoltà. Quando si è sufficienti a sé stessi?
Apparentemente mai, c’è sempre qualcosa che gli altri hanno e che noi non possediamo. A tal proposito secondo Wills, tendiamo a fare confronti downward per aumentare la nostra autostima, ossia abbiamo l’abitudine di fare confronti con chi sta peggio per sentirci meglio.
È troppo facile così, ma è un effetto delle nostre esperienze passate; più queste sono numerose, più è difficile vivere nel presente e più difficile è costruirsi un futuro. La difficoltà dell’accettare la propria storia si riflette nella nostra quotidianità.
Tendiamo ad indossare le maschere più disparate per renderci accettabili, per guardarci allo specchio e sentirci bene. Non siamo noi, ma è meglio di noi. Questo falso sé, per dirlo alla Winnicott, ha a che fare però con la dimensione dell’apparenza. Erich Fromm sostiene che c’è una differenza sostanziale tra apparire ed essere.
“Se io appaio gentile mentre la mia gentilezza non è che una maschera che copre la mia tendenza allo sfruttamento, oppure se appaio coraggioso mentre sono soltanto vanitoso […] l’apparenza stessa, vale a dire il mio comportamento manifesto, è in piena contraddizione con la realtà delle forze da cui sono spinto”.
Con questo Fromm sostiene che ciò che caratterizza il nostro essere reale ha a che fare con una dimensione più elevata, interna e non direttamente osservabile. Smascherarsi, a questo punto è la soluzione. Ma ciò significherebbe ammettere le nostre paure, affrontare il nostro passato, avere a che fare con ciò che c’è sotto la maschera; un viso nudo che si guarda allo specchio e si domanda “chi sono?”
La domanda di riconoscimento che ci poniamo continuamente, la riconoscenza della propria identità utilizzando gli altri come uno specchio, la ricerca di un senso alla nostra vita, che sia con la realizzazione lavorativa, che sia con il costruirsi una famiglia, che sia possedere più ricchezza: siamo pronti a pagare qualsiasi prezzo affinché una sola di queste cose restituisca un senso. Il significato del nostro passato, del nostro presente e del nostro futuro.
Questo desiderio di restituire alla propria vita un senso immanente, tuttavia, ci porta ad una ricerca sfrenata dell’inafferrabile: sostanzialmente vogliamo essere finiti, o meglio, vogliamo finire e, in questo caso, finire in un senso. Come sosteneva Lacan, abbiamo sempre bisogno di identificarci, di restituire una risposta alla domanda “chi sono?”.
Tuttavia la risposta a questa domanda avviene in un lampo, che ci scivola tra le mani. Tutti i tentativi di cogliere quell’attimo, nel momento in cui noi pensiamo di trovare la guarigione alle nostre ansie, paure del passato, presente e futuro, diventano il nostro sintomo.
Quest’ultimo si sostituisce a noi, ci rappresenta. A questo punto, sostiene sempre Lacan, che dobbiamo soggettivarci, assoggettare l’Io all’inconscio e non viceversa, riattivare queste identificazione affinché la domanda “chi sono io?” non trovi una risposta ultima. E dunque: “chi siamo noi?”
Sì, siamo il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro. Ma non finiamo nell’accettazione di ciò: siamo ciò che diviene, fino a quando solo il nostro corpo ci potrà dire “basta, sei stato abbastanza”.