L’economia di ogni regione sulla solita pianta
di Antonio Liccardo
A scuola, per ogni regione d’Italia, bastava ricordare la coltivazione di bieta e si portava a casa un 6 in geografia. Ma chi la conosce davvero?
Da pasto per suini a fonte di saccarosio: questa è la barbabietola da zucchero.
La frase nel titolo vi rievoca di sicuro reminiscenze scolastiche.
Per noi brufolosi studenti delle medie, nell’ora di geografia, tutte le casse regionali dello Stivale sembravano dipendere esclusivamente dalla sola barbabietola da zucchero. Tutte le regioni, nessuna esclusa. E dirlo con convinzione ci faceva guadagnare almeno la sufficienza.
Chiunque, oltralpe e sulle coste al di là del Mediterraneo, leggendo i nostri sussidiari si sarebbe immaginato un Paese di infinite distese di biete e bieticoltori piegati a raccoglierle sotto il sole brillante. Ma è davvero così?
Assieme alla coltivazione di mais, orzo e riso, in Italia è stato così, sicuramente. Soprattutto dalla fine del Settecento, da quando il dottor Marggraf, chimico di professione, dimostrò accademicamente la presenza di saccarosio nella Beta vulgaris, la cosiddetta barbabietola da foraggio, e da quando un altro scienziato tedesco, il dott. Achard, all’inizio dell’Ottocento, elaborò un metodo per trasformare la bietola di varietà saccharina (quella più conosciuta) nel tradizionale zucchero da tavola.
Per precisione fisiologica, la parte di questa pianta biennale (un anno si sviluppa, un anno si raccoglie) usata per ricavarne lo zucchero è la radice, che può raggiungere lunghezze (e quindi, profondità) di addirittura 2 metri: fino alla scoperta del dott. Marggraf si usava solo la parte fogliare, utile per nutrire i maiali. È presto detto come mai, fino ad allora, non esistessero colture specifiche di questo vegetale.
Da lì in poi, soprattutto nel Nord dell’Italia (in particolar modo nella Pianura Padana) si è cercato di coltivare biete con un tasso bello alto di “qualità tecnologica”, cioè un ricavo preponderante di zucchero dalla radice. Per gli amanti dei tecnicismi, in laboratorio si determinano, oltre al coefficiente di alcalinità e la purezza del sugo denso, i tre elementi definiti “melassigeni” (che creano melassa a dispetto del saccarosio che non viene estratto): potassio, sodio e (alfa)azoto.
Non solo: con l’utilizzo di tecniche agrarie più evolute (per aumentare il tenore proteico del raccolto, per esempio, si fa seguire la coltivazione della barbabietola con quella del frumento duro) e il miglioramento genetico (tale rotazione riduce anche i problemi dovuti alla micotossina della pasta “DON”), la bieta è diventata anche più resistente ai cambiamenti climatici che sono diventati repentini e incontrollati, come si è visto negli ultimi anni. E proprio in questi anni, il clima non è stato l’unico boccone amaro nell’industria della saccarificazione.
Il prezzo dello zucchero è calato drasticamente nei decenni, e nel 2006 c’è stata una riforma europea che ha razionalizzato il settore in maniera non equa per i paesi dell’UE. Di conseguenza, la concorrenza si è fatta così spietata al punto da far cambiare rotta a quasi tutti gli zuccherifici italiani, ora diventati fabbriche di biomasse, più redditizie e facilmente gestibili con le sovvenzioni europee.
Le aziende sopravvissute a questo aspro scempio, che si contano oramai sulle dita di una mano artritica, hanno già trovato un modo per riprendersi da questo economico calo di zuccheri: tra Emilia e Veneto si sono ingegnati per ricavare dalle biete anche il glicerolo per produrre bioplastiche e l’acido levulinico per i prodotti farmaceutici e alimentari.
Questa unione di ecologia ed economia non può fare altro che, restando in tema, aggiustarci la bocca.