Il fascino della Cappella degli Scrovegni
di Marianna Allocca
La Cappella degli Scrovegni, capolavoro della pittura del Trecento italiano ed europeo, è considerato il ciclo più completo di affreschi realizzato dal grande maestro Giotto nella sua maturità. Colore e luce, poesia e pathos. L’uomo e Dio.
Il senso della natura e della storia, il senso di umanità e di fede fusi assieme per narrare in un modo unico e irripetibile le storie della Madonna e di Cristo.
Nel 1300 il ricco banchiere padovano Enrico Scrovegni acquista la zona dell’Arena Romana, per costruire il suo palazzo e una cappella dedicata alla Beata Vergine in suffragio dell’anima sua e di suo padre Reginaldo, l’usuraio ricordato da Dante nel Canto XVII dell‘Inferno. La piccola chiesa di forme semplici e pulite esternamente presenta all’interno un unico ambiente, che termina sul fondo con un presbiterio in cui si trova il sarcofago di Enrico Scrovegni, opera di Andriolo de Santi, e sull’altare una Madonna col bimbo, opera dello scultore trecentesco Giovanni Pisano.
La cappella è costituita da un unico vano di 20,5 x 8,5 m. e di 18,5 m. in altezza con copertura a botte. L’intera decorazione è considerata uno dei massimi capolavori dell’arte di tutti i tempi. Per questa commissione signorile, il noto pittore aveva a disposizione le pareti di una chiesa di piccole proporzioni e asimmetrica, a causa delle sei finestre che si aprono soltanto sulla parete destra.
Per rendere possibile la realizzazione dell’ampio programma iconografico, il pittore ha preso come punto di riferimento lo spazio tra le due finestre, calcolando di inserirvi due storie, una sopra all’altra. Giotto ebbe come obiettivo quello di condensare il Nuovo Testamento nelle trentanove scene dipinte.
Il ciclo pittorico della Cappella è sviluppato in tre temi: le vicende dei genitori di Maria, Gioacchino e Anna, per proseguire con le Storie della Vergine e di Gesù, e chiudere in controfacciata con il Giudizio Universale narrato nell’Apocalisse. Inoltre, vengono realizzate quattordici allegorie dei sette Vizi e delle Virtù nell’alto zoccolo perimetrale.
Un modo nuovo di dipingere, ma anche il recupero di antiche tecniche romane e, soprattutto, l’uso di sapienti artifici che rendono più fluida la rappresentazione. In questo modo, Giotto rinnova e supera radicalmente la tradizione bizantina.
Il grande Maestro, quando lavorò alla decorazione della Cappella, fu aiutato da una squadra composta da una quarantina di collaboratori e si sono calcolate 625 “giornate” di lavoro, dove per giornata non si intende l’arco delle 24 ore, ma la porzione di affresco che si riesce a dipingere prima che l’intonaco si secchi.
Per quanto concerne gli interventi operati sul ciclo giottesco a cura dell’Istituto Centrale per il Restauro, essi hanno consentito non solo di circoscrivere al massimo il progresso del degrado degli affreschi, ma soprattutto di restituire all’insieme l’unità percettiva degli elementi portanti dell’invenzione del sommo Maestro.
L’intenzione è quella di offrire a chi entra nella cappella dei perfetti esempi di condotta, in modo da giungere al giorno del Giudizio senza il timore della dannazione, raffigurata come monito sulla parete di ingresso.
Forte è la simbologia dei Vizi e delle Virtù corrispondenti che si fronteggiano a coppia, in modo da raffigurare il percorso verso la beatitudine, da effettuarsi superando con la cura delle virtù gli ostacoli posti dai vizi corrispondenti, seguendo uno schema filosofico-teologico di ascendenza agostiniana.
Questo schema evidenzia compiutamente il rigoroso disegno filosofico-teologico presente nel programma della Cappella degli Scrovegni ed è la chiave per chiarire altri punti della decorazione che erano ritenuti “oscuri” o frutto di “approssimazione”. Tale innovativa lettura è stata operata da Giuliano Pisani.
I vizi non sono i tradizionali vizi capitali (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria). Le sette virtù contrapposte non rispecchiano l’ordine tradizionale. Si tratta di due percorsi terapeutici e di salvezza: il primo porta alla guarigione dai vizi tramite le virtù cardinali opposte, conducendo l’umanità alla Giustizia, che realizza le condizioni della pace e dunque del Paradiso Terrestre e della felicità terrena.
In particolare, la Stultitia rappresenta l’incapacità di distinguere il bene dal male e può essere curata dalla medicina della Prudentia, l’intelligenza etica, che consente di discernere le cose da desiderare e quelle da evitare.
Invece, il Giudizio Universale occupa l’intera controfacciata. Al centro esatto c’è la mandorla iridata con Cristo Giudice. Ai due lati i dodici apostoli, seduti in trono, creano un piano che taglia la scena in orizzontale: nella parte superiore Giotto dipinge le schiere angeliche, in quella inferiore, a destra, l’orrore dell’Inferno.
La croce separa in verticale lo spazio dei giusti da quello dei reprobi. Un fiume di fuoco, diviso in quattro bracci che squarciano d’una luce sinistra il regno di Satana, si stacca dalla mandorla iridata del Cristo e trascina all’ingiù, con la violenza di un vortice, i dannati, nudi, abbrancati e straziati da diavoli irsuti e orrendi.
Un gigantesco, osceno Lucifero domina la scena: dalla bocca gli pende la parte posteriore di un uomo che sta ingurgitando, un altro gli fuoriesce dall’ano. È l’orco disgustoso delle favole! Il suo colore, come quello di tutti i diavoli, è il blu ciano, il blu nerastro della morte. Siede su due draghi che addentano e ingoiano altri corpi.
Dalle orecchie gli fuoriescono serpenti che a loro volta afferrano e addentano i dannati, uno dei quali ha in testa una tiara papale. Tutt’intorno è un’orgia di orrori, con uomini e donne sottoposti a torture efferate. Le nudità maschili e femminili sono rappresentate con un realismo crudo e un’evidenziazione inusuale degli organi sessuali. Parliamo di un vero capolavoro dell’arte occidentale del XIV secolo.
Infine, dal 2006 la Cappella degli Scrovegni è candidata a diventare il secondo sito di Padova del Patrimonio dell’UNESCO.