L’infanzia e la poesia: la mano che spiegò a Pablo Neruda perché scriviamo
di Marzia Figliolia
Dal giorno lontanissimo in cui il primo uomo delle caverne ha avvertito la necessità di lasciare testimonianza scritta del suo passaggio, la questione del perché scriviamo e il motivo per cui ne ricaviamo piacere, ci ossessiona come un metro perenne con cui misurare la nostra esperienza umana.
Io. Perché scrivo, io?
Quando avevo 11/12 anni sono entrata in quella fase di vago disagio pre-adolescenziale, per cui non ricordavo più il mio vocabolario di bambina e mi riusciva difficile imparare quello da signorina, che invece tutte le mie amichette sembravano padroneggiare senza problemi. Improvvisamente, mi sono trovata senza le parole giuste, ché la gente ha dovuto imparare a interpretare le mie risposte in base alla gradazione di rosso che assumevano le mie guance.
È stato in quel periodo che ho cominciato a tenere un diario, con la segreta – segreta a me stessa, innanzitutto – speranza che qualcuno lo trovasse e, finalmente, mi decifrasse. Mi traducesse. È quella cosa molto umana del cercare la relazione nonostante tutto, il ponte tra me e l’altro, tra me e chi non mi conosce.
Si scrive per accorciare le distanze.
Questo non lo sapevo allora, a stento lo immagino adesso, eppure qualcuno c’era arrivato molto prima di me: quando pure lui aveva 11/12 anni, Pablo Neruda visse un incontro molto particolare, che gli sembrò fosse stato capace di svelargli il significato della vita, l’universo e tutto quanto.
Successe che si trovava nel giardino sul retro della sua casa di Temuco, in Cile, e mentre investigava sulle piccole cose meravigliose che popolavano il suo mondo, notò una fessura nella rigida sequenza dei paletti che formavano la recinzione della casa. Come racconta lui stesso, dopo aver gettato un’occhiata attraverso la fenditura, si fece qualche passo più indietro, perché: “Sentivo che qualcosa stava per accadere”.
Improvvisamente, una mano minuscola, di bambino, spuntò dal buco nella staccionata e, prima che il piccolo Pablo riuscisse a coprire la breve distanza tra lui e quella strana intrusione, la mano scomparve: al suo posto, proprio sotto la recinzione, c’era una pecorella intagliata nel legno.
Neruda soppesò quel regalo inaspettato, poi, preso da una certa urgenza, corse in casa e ne portò fuori un tesoro tutto suo: una pigna, aperta e profumata. Il suo oggetto preferito. Lo sistemò sotto la staccionata, e poi corse via a giocare col suo nuovo giocattolo.
Non vide mai più quella manina, né il bambino al quale apparteneva, eppure quel caso fortuito segnerà per sempre la sua vita e, soprattutto, la sua carriera di scrittore: “Questo incontro – scriverà poi in un saggio degli anni ’50 intitolato Childhood and Poetry – mi ha portato a casa, per la prima volta, un’idea preziosa: che tutta l’umanità sia in qualche modo unita da uno scambio perpetuo. È l’amore. Per amore si fa ogni cosa. E se è bellissimo sentire l’amore dei propri fratelli, ancora più meraviglioso è avvertire l’amore di coloro i quali non ci conoscono, perché ciò espande i confini del nostro essere”.
E così, come allora Pablo Neruda lasciò qualcosa di suo a quel bambino, così lui e tutti quelli prima e dopo continuano a lasciare parole sulla soglia delle case di sconosciuti, gettando ponti tra loro stessi e degli amabili estranei, infiltrandosi nelle loro prigioni, nelle loro libertà, nelle loro solitudini…