“E quanno buono buono aggiungo ‘na S!” – “¡Y de bueno a bueno añado una S!”
di Teresa Labriola
Se sei uno studente di lingue sicuramente saprai quanto è irritante sentirsi dire “Uh, studi lingue? E come si dice – parola a caso – in questa lingua?” da qualcuno che, molto probabilmente, non capisce che “studiare lingue” non equivale a studiarle TUTTE!
Di fatti, durante la carriera di un linguista non mancheranno i cliché e i luoghi comuni alimentati dalla voglia delle persone di dar aria alla bocca senza sapere di cosa si parla: qualunque studente italiano, o ancor meglio napoletano, che deciderà di studiare lo spagnolo dovrà essere psicologicamente pronto alla ripetizione in loop della simpaticissima frase: “Uà, ma perché studi spagnolo? Basta parlare in napoletano e aggiungere qualche “S”!”. Nonostante questa battuta faccia ridere solo persone con un QI sotto la media, bisogna purtroppo ammettere che non hanno del tutto torto.
I burloni di turno, senza neanche saperlo, sono giustificati da anni di storia in cui il nostro paese è stato dominato dai re spagnoli. È proprio nel XVI secolo che un enorme afflusso di ispanofoni si stanzia nel Regno di Napoli e nel Regno delle due Sicilie, introducendo in Italia una lingua, una cultura e dei modi di fare del tutto nuovi per il nostro popolo che ancora non aveva una lingua ufficiale.
Nel giro di poco tempo, a corte e nelle classi più elevate si affermò lo spagnolo nella comunicazione orale così come in quella scritta. La diffusione di libri interamente in spagnolo affascinò i napoletani a tal punto dal volersi improvvisare traduttori: il problema principale era delle classi meno colte che talvolta, non riuscendo a capire il significato di una parola, la lasciavano così com’era, facilitando l’inserimento della stessa nel proprio vocabolario.
Dopo la morte del re Alfonso I d’Aragona, grande promotore della cultura spagnola in ogni ambito della vita sociale, i Regni si divisero e molti iberici tornarono alla madrepatria. Tuttavia lo stretto legame tra spagnoli e napoletani non permise la separazione delle due culture, unite da più di quattrocento anni.
E tuttora, nel 2018, si sente ancora fortemente questo intreccio nelle situazioni quotidiane, nelle parole di tutti i giorni spesso pronunciate dagli anziani o da chi vive in centro città. Parole ed usi che sono rimasti fortemente consolidati nei napoletani, come l’usanza di giurare sul “cuore” o sul “corpo di Dio”, l’abitudine di rivolgersi ai giovani con parole affettuose come “nenna” o “ninno” (dallo spagnolo “niño” cioè “bambino”), o ancora la generosità nel condividere anche solo un “muorzo” di cibo (dallo spagnolo “almuerzo” cioè “spuntino”), o infine l’amore che mettono le nonne nell’insegnare ai propri nipoti che è peccato gettare il cibo o le molliche di pane avanzato, e che in questi casi è meglio fare un’opera buona e nutrire le “palomme” (dallo spagnolo “paloma” cioè “colomba”).