Hijab, tra esotismo ed erotismo
di Cinzia Abis
L’uso del velo femminile, indumento dalle svariate fogge, è una pratica vestimentaria dai significati plurali, nello spazio e nel tempo. Le donne che si riconoscono nell’Islam lo indossano per ragioni diverse, per giunta rinegoziabili di volta in volta. Pertanto, il velo è un oggetto polisemico: un ginepraio di significati che vorremmo qui portare alla luce, senza pretese di esaustività.
Il velo indossato dalle donne musulmane non può essere letto sempre e solo come segno di sottomissione femminile, da un lato, e resistenza all’occidentalizzazione, dall’altro. Anche se il velo è stato, in effetti, strumentalizzato nei contesti coloniali prima e in funzione anti-coloniale poi. I corpi delle donne sono stati terreno di scontro tra società, quelle dei colonizzatori e dei colonizzati, in entrambi i casi governate da uomini che lottavano, rispettivamente, per la propria supremazia. Com’è noto, si discuteva – e si discute – dell’inferiorità della “cultura musulmana” rispetto alla “cultura occidentale” vestendo e svestendo i corpi femminili. Come si fa per gioco con certe bambole…
Certamente, invece, nei contesti migratori contemporanei, il velo può essere letto anzitutto come un segno di appartenenza etnica. O, ancora, nei contesti di esclusione o emarginazione socioeconomica, nelle capitali europee, diviene strumento di rivendicazione identitaria. Ciò detto, non può essere trascurato il fatto che, in qualità di pratica vestimentaria femminile, il velo è soprattutto segno di differenziazione fra i generi e del controllo sulle donne. Come ogni altra pratica che connota e definisce l’appartenenza di genere, va incorniciata in una specifica politica culturale del corpo.
Analogamente, si pensi alle “nostre” politiche culturali del corpo femminile. Per esempio, si pensi all’uso del tacco 13 da parte delle donne occidentali; alcune sottomesse a pratiche e canoni di bellezza dettati da un’industria della moda anzitutto maschile. In altre parole, spesso, le presunte emancipazione e libertà sarebbero inversamente proporzionali ai centimetri della stoffa che avvolge i corpi delle donne occidentali.
Digressione a parte, l’uso del velo è un costume sessuale in quei contesti in cui l’onore maschile dipende dalla condotta sessuale femminile e in cui vigono le norme della reclusione femminile e della segregazione sessuale. Dove, cioè, le donne appartengono alla sfera domestica e non a quella pubblica. Dove, cioè, gli spazi fisici occupati dai corpi sono tenuti distinti e separati in base al sesso.
Secondo una tesi di stampo psicoanalitico, poiché la capigliatura evocherebbe universalmente gli organi genitali, la pratica del velo femminile alluderebbe sul piano simbolico all’imene da preservare. O, quantomeno, al nascondimento di un attributo sessualmente connotato e/o allusivo. O, ancora, probabilmente, all’addomesticamento delle pulsioni della libido femminile.
A tal proposito, ci sembra pertinente sottolineare un dato: nei contesti di migrazione, le donne marocchine di estrazione borghese fanno un uso ostensivo del velo per distinguersi dalle loro connazionali dedite alla prostituzione.
Infine, seguendo il filo del nostro discorso, ci sembra interessante riportare il significato della parola hijab, con cui si designa anche, ma non solo, il velo femminile. Essa deriva dal verbo hajaba, che significa “nascondere”. Nella cultura popolare musulmana, l’amuleto o hijab è quell’oggetto che nasconde la forza magica del talismano, che spesso consiste in versetti coranici.
Evidentemente, tanto la protezione magica quanto la bellezza femminile devono essere occultate, tenute nascoste agli sguardi indiscreti. Non solo: forse, tanto la magia quanto la bellezza e la sessualità femminile rimandano a un’idea di forza occulta, inconoscibile e impenetrabile ai più.