Van Gogh: tra melanconia e sublimazione
di Ferdinando Ramaglia
“In ogni modo, cercare di essere vicino alla realtà è forse un modo per combattere il male che continua sempre a tenermi inquieto”
Queste sono le parole che scrisse Vincent Van Gogh al fratello Theo nel 1890, un anno dopo essersi trasferito nel manicomio di Saint-Rémy.
La terribile malattia che lo affliggeva (su cui sono state fatte diverse ipotesi, Jaspers, ad esempio, sostenne che si trattasse di schizofrenia) lo portava in uno stato mentale in cui era difficile recuperare il contatto con la realtà, portandolo ad avere allucinazioni, ad udire voci e alla depressione.
Ma proprio in quel momento di sofferenza atroce, Van Gogh guardò fuori dalla finestra della sua stanza del manicomio e colse nel cielo ciò che rende tale la vita: egli vide nella notte, in ciò che è più buio, un incredibile dinamismo.
Così dipinse La notte stellata.
Sicuramente la sublimazione del suo stato d’animo giocò un ruolo importante nella vita di Van Gogh, grazie alla quale egli cercò di far fronte alla sua condizione di schiavo della malattia. Infatti, guardando il cielo intravide come delle “forze invisibili” che muovono la vita, provando un profondo sentimento d’amore.
Tuttavia i suoi dipinti non furono una semplice sublimazione della sofferenza, ma, al contrario, furono sublimazione di un tentativo di uscirne e di dominare il dolore.
Dalle sue opere viene fuori quella che in psicoanalisi è denominata come “pulsione di vita” o “Eros”, la spinta sessuale che tende ad unire. Questo perché solo l’amore per la vita poteva dominare quella pulsione di morte che, al peggiorare della malattia, si faceva sentire sempre più presente.
Tuttavia la malattia di Van Gogh sembra non essere improvvisa, ma ha una causa che ci spiega la genesi della sua sofferenza.
Andando ad indagare nei retroscena della vita dell’autore possiamo affermare che la culla di questo male fu proprio il momento in cui Van Gogh nacque. Infatti, come ci spiega Massimo Recalcati nel suo libro Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh questo evento fu dovuto al dolore della madre circa la morte del figlio nato prima di Vincent.
Tale fratello di Van Gogh aveva il nome di “Vincent”, e la madre, per sopperire al dolore della perdita del figlio chiamò il seguente col medesimo nome; forse per eludere la drammaticità dell’evento, per non soccombere al dolore.
Dunque, il famoso pittore non solo nacque in un ambiente affettivamente freddo, ma in un contesto in cui la sua immagine rifletteva l’ombra di un morto. Un fantasma che non gli assomiglia. Recalcati a tal proposito scrive:
“Il ricordo della perfezione idealizzata del primo Vincent – in quanto oggetto perduto – rende, infatti, il secondo Vincent un sostituto drammaticamente insufficiente. Il desiderio dei suoi genitori non ha reso possibile alcun lavoro del lutto […] ma ha come cancellato, reso non avvenuta, dimenticato forzatamente quella nascita traumatica.”
Immaginiamo, dunque, come sia stato traumatizzante andare al cimitero, a cui spesso faceva visita con la madre, e portare i fiori ad una lapide che ha il tuo stesso nome.
“La lapide del fratello nato morto e idealizzato dalla madre gli si cala di fronte al posto dello specchio, del volto e dello sguardo amorevole dell’Altro.”
Quell’Altro che cita Recalcati, altro non è che la madre. Lo stesso autore ci spiega anche come e perché Van Gogh è melanconico: “Per Van Gogh la sua esistenza non sembra aver trovato nel desiderio dell’Altro una forma possibile di simbolizzazione del suo proprio desiderio. Lo sguardo dell’Altro gli appare colmo dell’ideale del fratello nato morto che portava il suo stesso nome.
La celebre osservazione freudiana, secondo la quale nella melanconia l’ombra dell’oggetto perduto (ideale) cade sul soggetto, troverebbe qui una sua chiarificazione essenziale: Vincent è parassitato da un’immagine ideale che non lo abbandona e che sovrasta la sua esistenza. […] nella melanconia il corpo che perde la sua immagine diventa peso, cosa morta, oggetto-scarto, superfluo, rifiuto. ”
Dunque, la genesi della malattia di questo artista sembra essere radicata in un’eterna insoddisfazione, in una eterna lotta con un ideale fantasma, un ideale che porta il nome di qualcuno che è morto.
Ma la melanconia di Van Gogh, come egli stesso sostiene, è attiva, piena di speranza e che cerca, attraverso la produzione artistica, di non essere risucchiato dalla tendenza alla morte che caratterizza il suo male.
Questa sua tendenza alla vita che voleva sottrarsi all’assenza e alla morte, si è tramutata negli spettacolari dipinti che Van Gogh ha lasciato in eredità all’umanità.
Quanto è facile oggi giorno, per chi conosce Van Gogh, guardare il cielo e immaginarsi la notte stellata e rispecchiarsi in quella dinamicità contrastante, piena di luce e piena di buio.
Quanto è bello immaginarsi la vita con i tuoi colori, Vincent.