Le due maja: i retroscena del(i) dipinto(i)
di Luisa Ruggiero
Una camera oscura nella quale si proietta, tramite un foro praticato su una delle pareti, l’immagine esterna, capovolta, sulla parete opposta.
Il clima era quello dell’Inquisizione, sebbene davvero mal tollerato dai nobili spagnoli che continuavano ad acquistare senza sosta dall’Italia Tiziano, Rubens, Veronese, Guido Reni.
Già nella seconda metà del Cinquecento anche il severo Filippo II aveva acquistato da Tiziano l’intero gruppo di tele raffiguranti le Metamorfosi di Ovidio, in cui il pittore ritrae le venete senza particolare attenzione alla censura. Successivamente questi dipinti ed altri della medesima tipologia, ebbero un posto nella cosiddetta “Sala reservada” presso l’Accademia di San Fernando, dove vennero conservate anche la maggior parte delle opere d’arte acquistate nel XVII secolo a Carlo I d’Inghilterra dopo la rivolta di Cromwell.
Non era dunque facile reperire né, tantomeno, commissionare opere d’arte di un certo tipo, ma con le dovute eccezioni. Questo è il caso di Manuel Godoy y Alvarez de Faria, noto come “Principe della Pace”, appartenente alla piccola nobiltà di provincia, si “fece da solo”, per così dire, grazie alle sue abilità militari e diplomatiche.
La sua ascesa politica iniziò con la firma del trattato di Basilea che concludeva la prima guerra rivoluzionaria tra Spagna e Francia, da lì una sequela di titoli, onorificenze e riconoscenze.
Nel frattempo Goya, ragazzotto di provincia, ha la fortuna di conoscere il suo maestro Francisco Bayeu, dal quale assorbe la pennellata nervosa e materica che lo contraddistingue, mitigandola e mescolandola con le nozioni assunte durante un viaggio in Italia (e nella pittura italiana), consigliatogli appunto dal suo mentore.
Prende a lavorare con il fratello minore di Bayeu, Ramon, a Madrid nella Real Fàbrica de Tapices de Santa Barbara, la Fabbrica Reale di Arazzi, diretta da Francisco, che lo presentò a Godoy, il quale fin da subito lo prese a ben volere e, all’apice del suo successo, gli commissionò le due versioni della Maja, che custodiva nel Palacio de Buenavista dei duchi d’Alba, nello stesso luogo dove erano conservate anche la Venere di Velasquez e quella di Tiziano assieme ad altri nudi che il primo ministro spagnolo collezionava.
Sin dal primo momento fu chiaro a tutti che la donna riversa nell’opera di Goya non avesse i tratti, né la dolcezza e l’innocenza, tipici di una Venere, l’assenza di Cupido ed il divano che sostituiva il consueto letto erano segnali inconfutabili, gli occhi profondi, lo sguardo voluttuoso e la posa instabile, quasi stesse cercando una posizione migliore, ne sono la conferma.
Ciò rese necessario adottare un curioso stratagemma che facesse scorrere i dipinti l’uno sull’altro, in modo da scegliere e cambiare repentinamente la versione da mostrare agli ospiti presenti in sala.
Insomma nulla è casuale: dalla scelta del doppio dipinto alla scelta del titolo dell’opera (maja vuol dire per l’appunto bella e seducente), alla scelta del soggetto il quale, molto probabilmente, è identificabile con la duchessa d’Alba, la moglie del padrone della dimora presso cui erano custoditi i dipinti di Godoy, molto probabile è anche il legame sentimentale della donna con l’artista e forse anche con lo stesso Godoy, con il quale non è dubbio almeno l’affetto profondo che li univa.
Questi non trascurabili retroscena rafforzano l’idea che sia proprio lei la musa dei due famosi quadri in questione e il suo aspetto non fa altro che dar credito a questa ipotesi. Sebbene è impossibile non tener conto del fatto che all’apice del suo successo, Godoy fu anche amante della regina consorte Maria Luisa di Parma, che alcune voci additano come possibile alternativa fonte di ispirazione per le opere, mentre altre, invece, ritrovano somiglianze innegabili nell’aspetto di Pepita Tudò, altra nota amante del Principe della Pace; quest’ultima gli sarà accanto anche negli anni della disgrazia e diverrà sua sposa vent’anni dopo.
Alle maje e al suo sfortunato possessore, così come all’artista che le concepì, non fu concessa, però, lunga fortuna; alla caduta di Godoy le due opere vennero confiscate da re Fernando VII e nel 1814 l’Inquisizione, che venne soppressa solo durante l’era napoleonica, sequestrò la desnuda poiché oscena e fece causa a Goya, il quale venne salvato solo grazie all’intercessione di Luis Maria de Borbon y Vallabriga.
Il quadro restò celato fino alla fine del secolo, sebbene venne menzionata nel Les Musées d’Espagne dal critico francese Louis Viardot nel 1845, il quale rimase profondamente colpito dal particolare fascino dell’opera.