Nella camera oscura: da Vermeer a Canaletto
di Rebecca Grosso
Ogni quadro di Canaletto è un viaggio nei minuziosi dettagli di quello che, più che un dipinto, sembra essere la fotografia di uno scorcio urbano. Si tratta dello stesso fascino delle opere di Vermeer, sintesi della sensibilità trasmessa dallo studio della luce e il rigore compositivo.
Puro genio o frutto di qualche ingegnoso trucchetto?
Una camera oscura nella quale si proietta, tramite un foro praticato su una delle pareti, l’immagine esterna, capovolta, sulla parete opposta.
Questo principio, di cui parlò il filosofo cinese Mozi, denominando la camera luogo di raccolta o stanza del tesoro bloccato, era già noto nel V secolo a.C. e fu sfruttato, un secolo più tardi, da Aristotele per osservare un’eclissi solare.
Un passo in avanti fu compiuto nel 1267 con Roger Bacon, il filosofo medievale che studiò il funzionamento degli specchi e mise a punto i principi fondamentali della camera oscura. Fu infatti nel ‘300 che, a partire dall’Olanda, si diffusero strumenti ottici come gli specchi concavi e convessi, gli occhiali e le lenti di ingrandimento.
La vera e propria svolta si verificò però nel corso del Rinascimento quando, nel 1413, il grandissimo architetto Filippo Brunelleschi scoprì e fondò le regole geometriche della prospettiva scientifica: capì che tutte le linee degli oggetti collocati in uno spazio tridimensionale, se prolungate, convergono in uno stesso punto, detto di fuga.
La paternità di tale invenzione è dimostrata dalle testimonianze di contemporanei e storici dell’arte, tra cui Antonio Manetti, biografo di Brunelleschi. Egli scrisse di un metodo di verifica ideato dall’architetto fiorentino per dimostrare la verosimiglianza dell’immagine dipinta con quella reale; su una tavoletta di forma quadrata egli aveva dipinto il Battistero di Piazza Duomo, prestando particolare attenzione ai suoi intarsi marmorei.
Nella tavola fu praticato un foro svasato, in modo che l’occhio dell’osservatore, posto in un punto preciso, potesse percepire l’immagine reale della scena. Con l’aiuto di uno specchio l’osservatore poteva vedere l’immagine dipinta riflessa nello specchio e ammirare la perfetta coincidenza con quella reale.
Da Leonardo Da Vinci, nel 1490, nacque l’idea di utilizzare tale tecnica in maniera utile per il lavoro dell’artista.
I raggi di luce provenienti dall’esterno possono essere regolati avvicinando o allontanando opportune lenti al foro, rendendo possibile la gestione della definizione dell’immagine.
Alla camera, detta oculus artificialis per la somiglianza del suo meccanismo con quello dell’occhio umano, fu riconosciuta una certa utilità nella rappresentazione di scene di natura, città e paesaggi panoramici.
La prima versione della camera oscura aveva dimensioni sufficienti per contenere lo stesso artista e fu utilizzata esclusivamente per lavori topografici.
Avente le dimensioni di un armadio, trasportabile per mezzo di stanghe come una portantina, la camera era dotata di uno specchio regolabile posto nel punto più alto che rifletteva l’immagine della veduta su una tela appositamente posizionata.
Nel ‘600 Keplero introdusse una novità, una seconda lente posizionata in modo da raddrizzare l’immagine; pare inoltre che abbia inventato, per scopi militari, una versione, più piccola e quindi “portatile”, della camera oscura, la camera a tenda.
Questo secondo modello, particolarmente maneggevole, consisteva in una cassetta di legno delle dimensioni di una grossa scatola di scarpe; l’immagine puntata dall’obiettivo veniva proiettata su uno specchio inclinato a 45° che, a sua volta, la rifletteva su una lastra di vetro smerigliato, attraverso la quale, in condizioni di penombra, diveniva possibile ricalcare per trasparenza l’immagine prospettica del soggetto prescelto.
La cultura illuminista dette impulso allo studio della geometria, dell’ottica e, in particolare, della prospettiva. In questo contesto, la camera oscura fu sempre più spesso adoperata dagli artisti, fino a diventare di uso comune e diffuso.
Proprio in questo periodo nacque, a Venezia, il vedutismo, di cui Canaletto è il massimo esponente. Per vedutismo si intende un genere pittorico nel quale vengono rappresentate vedute prospettiche di città e paesaggi ripresi dal vero.
Non è però nel ‘700 che fu adoperato per la prima volta nell’arte il dispositivo ottico. Sembra infatti che, sin dal secolo precedente, artisti del calibro di Vermeer o Caravaggio ne facessero uso.
In particolare, il fatto che dei dipinti di Johannes Vermeer non si siano rinvenuti disegni preparatori lascia pensare che il pittore olandese sfruttasse la camera ottica, sebbene non si sappia fino a che punto e in che misura lo facesse.
Le caratteristiche dei suoi dipinti che suggeriscono l’uso di una camera oscura non riguardano solo le prospettive, ma anche la composizione, la manipolazione della luce e il rendering tonale; tra queste spiccano la resa brillante del colore anche dove l’immagine va fuori fuoco, la disparità di proporzioni nei piani e la precisa e geometrica organizzazione spaziale, mantenuta nonostante i diversi ripensamenti dell’artista durante la creazione.
In sei dipinti viene rappresentata la stessa stanza, probabilmente il suo studio, vista da angolazioni diverse e tutti sono stati eseguiti su tele della stessa dimensione. Secondo Steadman, insegnante all’University College di Londra, l’artista avrebbe ricalcato immagini create con il dispositivo ottico.
Proprio i limiti tecnici delle camere oscure del XVII secolo e delle lenti dell’epoca, che non garantivano la messa a fuoco per l’intera profondità di campo, avrebbero contribuito agli effetti dell’arte di Vermeer che affascinano ogni generazione; i contorni non netti, ma chiari, morbidi, dati solo dalle contrastanti aree di colore.
Questa serie di caratteristiche non ne dimostra l’effettivo utilizzo da parte di Vermeer, ma la loro presenza combinata rappresenta il punto centrale del suo metodo di lavoro, perfettamente in linea con l’intento artistico della sua opera: la resa realistica, ricercata con un interesse quasi scientifico, dei soggetti raffigurati.