Questa notte
di Benedetta De Nicola
Le note risuonavano per tutta l’ampia stanza, un pianoforte invisibile ricamava un pentagramma di dolce inquietudine. C’eravamo solo io e quel quadro, così vicini, così simili. Era come se intorno a me ogni cosa si fosse tinta di un rosso carminio che mi avvolgeva nel momento della contemplazione.
Non è facile osservare un’opera d’arte, che sia un libro, un film, un quadro o una persona. L’opera d’arte va apprezzata nella propria totalità. Se ci si avvicina troppo, la sua bellezza ne risente, ogni singolo difetto viene a galla fino a far marcire lo splendore dell’arte totale della quale avevamo goduto fino a pochi istanti prima che ci avvicinassimo, il godimento di un’opera è il pane degli epicurei, ogni piacere da trarre avidamente fa sì che noi possiamo vivere la nostra opera d’arte.
Sono terrorizzato dinanzi a Böcklin, sento la mia anima che viene trascinata sull’isola e risucchiata nel nulla, un tornado silenzioso che non lascia dolori, solo un piccolo spazio vuoto in un mondo che di me non si cura.
Non ricordo il mio nome, perciò mi chiamerò Nessuno, così se esiste un aldilà sarò nessuno anche lì. Non c’è alcun posto dove vorrei essere, L’isola dei morti è l’unico paradiso nel quale mi addentrerei, anche solo per sbirciare le anime e i loro occhi vitrei. Mi avvicino ancora, sbaglio ancora.
L’opera d’arte vuole che vengano rispettati i suoi spazi, non deve essere invasa e io sto commettendo il medesimo errore che ho commesso con la mia vita, mi sono avvicinato troppo ad essa, l’ho sgualcita con il mio sguardo curioso e malizioso, quasi come se stessi spiando una donna nuda dal buco della serratura, mi sento come Ingres con il suo Il bagno turco, un intruso inaspettato e indesiderato nella vita di qualcun altro.
Sono stato sul punto di suicidarmi alcune volte, volevo vedere come fosse la morte, se davvero dopo avrei visto tutto il nero del mondo. Sono stato codardo, non ho saputo lasciare l’arte, ho voluto prolungare il mio latrocinio interiore. Nessuno può leggere i miei pensieri, nessuno mai potrà, è per questo che mi permetto il lusso di continuare a pensare, continuerò a stare qui a sbagliare, a fissare l’arte.
Avevo un fiore in bocca, lo sentivo crescere nel mio cervello, era sbocciato il giorno in cui avevo visto Il viandante sul mare di nebbia di Friederich, avevo diciotto anni, da allora il fiore non aveva fatto altro che crescere tanto da farmi arrivare i petali davanti agli occhi, è per questo che mi sono avvicinato troppo all’opera d’arte, non la vedevo più bene e ho creduto che avvicinandomi l’avrei vista meglio e invece l’arte mi ha voltato le spalle. Sono rimasto solo, ma ciò non mi spaventa, dopotutto sono Nessuno.
Una volta avevo un nome, un’identità, avevo la quotidianità banale e vivevo di quella, poi tutto è cambiato, il mio fiore ha cominciato a crescere e non so ben dire se sia stato meglio o peggio, è cominciata la mia forte ossessione di arrivare al Nirvana, ma non mediante le droghe, quelle le avevo già provate e più che al Nirvana mi ero ritrovato sul ciglio della strada.
Dovevo trovare qualcosa che me lo facesse raggiungere, volevo essere normale, bramavo quella normalità alla quale non avevo mai creduto, volevo smetterla di pensare sempre come se stessi scrivendo una poesia, smetterla di capire di più.
A scuola l’unica cosa che riuscivo a fare era fissare i miei compagni, tutti mi allontanavano pensando che fossi uno strampalato omuncolo in preda alle crisi ormonali, e io glielo lasciavo credere, non volevo mi scoprissero, non volevo vedessero che il mio cervello elaborava dieci volte in più del loro e allora li fissavo e immaginavo: Marta aveva i capelli rossi, mi faceva pensare a Beatrice e quando facevamo “Divina Commedia” immaginavo fosse lei a parlare. Asia la vedevo più come un personaggio dei libri di Nick Hornby, rozza e scarna, ma con un passato che le consentisse di esserlo.
Marco era gay, ma non voleva che si sapesse, baciava appassionatamente ogni settimana una ragazza diversa, ma io vedevo la sua bocca storcersi e le sue gote marmorizzarsi per poi riacquisire colore solo dopo aver parlato con Paolo, decerebrato cronico e animalesco essere vivente, di quelli che a me hanno sempre fatto un po’ ribrezzo.
Guardando le opere d’arte altrui ho viaggiato più di quanto ogni essere vivente faccia nella propria esistenza, ho compiuto viaggi all’interno dell’emozionalità corporale dell’uomo, ciò appaga più di un qualsiasi week-end alle Maldive. Assorbire come una spugna le vite altrui rende ricchi, colmi di esperienze. Chi non ne compie, non vive.
L’isola dei morti continua a risucchiarmi, al pianoforte si è aggiunto un violino: adesso ricordo. Questo flusso di coscienza, questo fiume di pensieri mi fa affiorare dei ricordi. Mia madre un giorno mi aveva portato da uno specialista, i professori dicevano che ero troppo introverso, non mi integravo col gruppo classe, così un martedì di un qualche mese e anno bussammo alla porta del dottore.
Mi fece sedere, i miei occhi grigi di ghiaccio cominciarono la decodificazione della figura che avevo di fronte. Mia madre mi accarezzò e uscì. L’uomo aveva paura del mio sguardo, lo evitava, sono sicuro che fosse sposato e che avesse una vita infelice, ma appagante.
L’ignoranza è il pane degli stolti ed io avrei voluto mangiarne, ma solo in pochi momenti, gli stessi momenti nei quali avrei voluto morire. Mi pose alcune domande, stupide domande alle quali risposi come volevano sentirsi rispondere tutti, desideravo che non capisse, che mi diagnosticasse solo una depressione dovuta alla morte di mio padre: così fu.
Almeno così mamma si sarebbe tranquillizzata, pensando mi sarebbe passata col tempo. In realtà io non ero triste, ero e sono solo io; il mio cervello non mi concede la tristezza, il mio cervello è stracolmo di intelletto e non lo dico per autocelebrazione, lo dico perché è vero: sono una sorta di genio, ho un quoziente intellettivo molto più alto in confronto alla media e nessuno deve saperlo, voglio tenere per me tutta la mia opera d’arte perché è l’unica cosa che ho.
Bill Hicks fu visitato da uno psicologo, anche lui “aveva qualcosa che non andava”, mostrò il suo genio al mondo, la sua repulsione verso le religioni, il suo intelletto smodato e morì. D’Annunzio, Leopardi, Cesare, Giovanna D’arco, Gesù Cristo, Michelangelo, la Papessa Giovanna, Oscar Wilde, tutti morti non per scelta personale, ma perché il mondo ti uccide e io non voglio che il mondo mi uccida.
A dir la verità la morte di mio padre non mi aveva fatto soffrire più di tanto, sembra orribile, lo so, ma in me non c’è molto che non lo sia. Lui faceva l’operaio, guadagnava abbastanza per farci vivere, ma questo gli era costato la salute, un tumore lo aveva portato via quando avevo sette anni. Non ricordo come sia avere un padre, ricordo mia madre distrutta, ogni sentimento provato l’ho conservato nel mio cervello e nel mio corpo, stipato in attesa di questo giorno. Oggi è il giorno dell’Apocalisse, l’ho atteso per una vita.
Sono riuscito a scappare dal manicomio dove mi avevano congelato a vita, una vocina aveva da un po’ di tempo iniziato a parlarmi finché non era diventata una vera e propria entità, un altro me si era materializzato a consolarmi, a starmi vicino, quasi come se la vita si fosse voluta burlare di me ancora una volta, aveva voluto mostrarmi la mia solitudine ulteriormente, inesorabilmente facendomi soccorrere da un altro me.
Lui un giorno mi propose la fuga, mi osservava mentre fissavo L’isola dei morti di Böcklin raffigurata su di un manuale e mi disse: “Scappiamo, solo per una notte, solo per vederla”. Così iniziai a risvegliare tutte le antiche emozioni del mio corpo ormai inetto, aspettando questa notte, la notte della mia personale Apocalisse.
Sono fuggito dalle cucine, essendo un ottimo osservatore conosco a memoria ogni orario di ogni inserviente, ogni telecamera, ormai nulla mi è più estraneo, solo L’isola dei morti lo era, per questo vederla da vicino era diventata la mia nuova ossessione.
Alle 22.00, Kaspar, l’inserviente moldavo si allontanava sempre per cinque minuti, chiamava in Moldavia dai telefoni della struttura, così facendo avrebbe potuto spendere di meno e nessuno ci avrebbe fatto caso, e, seppure se ne fossero accorti avrebbe potuto dare la colpa ad uno di noi, tanto si sa, i matti so matti e basta, nessuno si chiede il perché delle loro azioni. Io e la mia entità ci siamo guardati e siamo scappati, cinque minuti per fuggire e vivere ancora una volta, forse l’ultima.
Camminando in strada l’unica cosa che mi viene da pensare è che sono un moderno Sisifo, sono stato condannato a spingere il mio masso in cima alla montagna per poi vederlo ripiombare al suolo e, alla fine, ricominciare tutto da capo. Questa mia passeggiata notturna verso il quadro, verso il mio personale Nirvana, verso l’Apocalisse è il momento della contemplazione dell’opera d’arte, adesso sono Sisifo che pensa alla propria condizione accettandola, l’accettazione fa sì che si debba considerare Sisifo felice e ora, te lo giuro cara voce interiore, io sono felice.
Durante la mia vita precedente ero stato uno dei maggiori critici d’arte in Europa, avevo dato solo un piccolo assaggio del mio genio al mondo, stavo osservando l’opera d’arte da vicino, sgualcendola. Il giorno che arrivai a Berlino e vidi per la prima volta L’isola dei morti rimasi ipnotizzato, sentivo la mia carica negativa attratta inesorabilmente da quella positiva di quel quadro che ormai mi pareva così immenso da risucchiarmi. Poi il vuoto. Quando quei dottori in camicia bianca mi hanno prelevato ho capito che il mio genio era finito come gli altri: ucciso.
Mi piacerebbe lasciare questa riflessione ai posteri: la società non è abituata ai geni, la mediocrità la fa da padrona, ma se io dovessi rinascere vorrei nascere egualmente genio perché, seppure esso sia bistrattato, è l’unica cosa che dà un vero senso all’esistenza dell’uomo e chi non ne possiede, vive annegando nella mediocrità stessa.
Dopo tutto il caos, i medici, le medicine, i calmanti, la musicoterapia, il dolore degli aghi nelle vene, mi hanno diagnosticato la follia più pura. Persino gli altri matti, quando passo io si fanno il segno della croce, ma tutto ciò non mi tange, ho sempre saputo che Sisifo deve essere considerato felice e come lui, anche io. La mia felicità è ora, mentre pecco, mentre osservo l’opera d’arte. Sono entrato con una maestria degna di pochi, conosco questo museo meglio di chi lo ha costruito, lo considero parte di me.
Finalmente sento di poter respirare, una lacrima calda mi bagna il viso, la mia entità parallela è rientrata nel mio corpo così da renderlo completo, respiro a pieni polmoni quasi come se stessi al mare, L’isola dei morti adesso è la mia felicità, la mia salvezza, la mia opera d’arte e nessuno, nessuno potrà mai levarmela.
Stanno arrivando, verranno a prendermi, lo so, ma non mi interessa. Spalanco le braccia, alzo il capo verso il cielo e canto: “COME AS YOU ARE, AS YOU WERE”, sii te stesso, che tu sia genio o meno, sii te stesso che tu sia principe o povero, l’importante è che tu lo sia.
Li sento, sono qui, mi hanno trovato, tre ore esatte, i miei calcoli erano giusti. Una serie di braccia mi si avvolgono al collo, c’è mamma qui, piange, c’è anche il dottor Moro, mi sussurra parole di un conforto di cui non ho più bisogno ormai. Ci sono tutti. Ogni cosa mi pare scorrere a rallentatore, sono uno spettatore degli eventi che mi stanno accadendo, ma continuo a sorridere e cantare, non necessito più di nulla.
Mi lascio cadere, lascio che mi schiacci questa valanga di mediocrità. Mi vedo accasciarmi al suolo, la morfina sta facendo effetto, ho tanto sonno, sono gli ultimi istanti, sto cercando di fotografarli per poi incamerarli per sempre.
Adesso ricordo: mi chiamo Giacomo e ho FINALMENTE raggiunto il mio Nirvana.
Disegno di Alberto De Vito Piscicelli