Il sorriso che salvò la vita di Antoine de Saint-Exupery
“Il sorriso non è solo un’espressione facciale, è un atto sociale con delle conseguenze”, ho letto una volta su qualche manuale di cinesica che avevo comprato dopo aver guardato due puntate di Lie to me.
Sorridere è una cosa bellissima, è un ponte che abbassiamo sulla terra antistante la fortezza di noi stessi ed è bello anche perché è ironico: siamo l’unica specie animale che quando mostra i denti di solito non si sta preparando ad usarli.
Ebbene, io sorrido sempre, quando incrocio lo sguardo di persone che non conosco. Ciò comporta anche una serie di disagi, come essere fermata da tutti quelli che fanno le interviste a campione su via Scarlatti la domenica mattina, o essere presa per scema da potenziali amori della mia vita seduti di fronte a me in metropolitana – gli amori lampo della metropolitana meriterebbero un articolo a parte, a proposito.
Eppure, ho anche superato più di qualche esame e incontrato il favore di più di un severissimo impiegato delle poste, solo con la semplice cortesia di un sorriso. Antoine de Saint-Exupery, quando ancora non aveva reso “l’essenziale è invisibile agli occhi” la citazione più condivisa sulle bacheche Facebook di tutto il mondo, annotava sul suo taccuino qualcosa di simile: “L’essenziale, molto spesso, non ha peso. Un sorriso è spesso quanto basta all’essenziale. Siamo ripagati da un sorriso. Siamo soddisfatti da un sorriso. E un sorriso, al momento giusto, può farci morire”.
È chiaro che Saint-Exupery stesse parlando per metafore, quella volta, eppure non troppe pagine più in là lo scrittore ricorda un evento della sua vita nel quale davvero, con drammatico realismo, un sorriso è stato per lui la differenza tra vivere o morire.
Qualche anno prima di scrivere il suo celebrato Piccolo Principe, infatti, Saint-Exupery faceva il giornalista inviato in Spagna, durante la Guerra Civile. Una notte, un manipolo di miliziani ribelli lo sorprese fuori dal suo accampamento e, facendo più caso alla sua cravatta (troppo elegante per essere quella di un anarchico), che al suo viso, lo catturò, premendogli la canna di un fucile contro lo stomaco e intimandogli di seguirli: lo avevano scambiato per una spia!
In quello che Saint-Exupery avrebbe poi definito “un solenne silenzio”, lo trascinarono fino al loro campo base. Il campo base in questione era una specie di cantina, sporca, disordinata e male illuminata, nella quale trovavano posto qua e là decine di uomini sporchi, disordinati e annoiati. I militari lo perquisirono.
Non aveva documenti con sé, li aveva lasciati in albergo ma non poteva spiegarlo perché non parlava spagnolo e comunque quegli uomini non sembravano per niente interessati a quello che avrebbe potuto dire. Saint-Exupery raccontò in seguito, nel suo diario, la noia ed il disinteresse con cui i miliziani lo guardavano, come se fosse stato “un pesce in un acquario cinese”.
Tutto questo lo terrorizzò. In un momento in cui i processi sommari erano all’ordine del giorno e gli anarchici erano quelli noti per non andare troppo per il sottile, Saint-Exupery si convinse di stare per morire e che l’unica cosa che avrebbe potuto salvarlo, stabilire una qualche forma di comunicazione, era l’unica cosa fuori discussione perché non c’era nessuno che potesse comprendere le sue suppliche in francese.
Pensò di mettersi ad urlare. A piangere disperato. Qualcosa, qualsiasi cosa pur di decretare uno stato qualunque di umanità. Invece non riuscì a fare nulla, e pensò di rassegnarsi al suo destino imminente.
E qui accadde il miracolo: nel tentativo quasi comico di calmarsi, Saint-Exupery chiese a gesti una sigaretta all’uomo accanto a lui, e quasi come per un riflesso condizionato, abbozzò un sorriso ad accompagnare la sua richiesta. L’uomo, che fino ad allora non sembrava nemmeno essersi accorto della sua presenza, finalmente alzò lo sguardo, si passò una mano sugli occhi e, con sua immensa sorpresa, gli sorrise di rimando.
Un sorriso! “Fu come assistere all’alba di un nuovo giorno, – scrisse Saint-Exupery – un miracolo! E questo miracolo non pose fine alla tragedia, no, eliminò il senso stesso della tragedia: non c’era stata alcuna tragedia!
Nulla di ciò che mi era visibile era cambiato (la stanza era ancora buia, e zozza, e disordinata), eppure tutto si era trasformato nella sua propria essenza. Quel sorriso mi ha salvato la vita, mi ha donato una visione così chiara del mio futuro prossimo quanto i primi raggi di sole che annunciano l’alba: sarei vissuto”.
Un sorriso. L’inizio di una comprensione minuscola, una cosa da niente che è la fine di un incubo, l’inizio di una restituita umanità.
Niente era stato detto. Eppure, tutto era stato risolto da un minimo inclinarsi di labbra.
Certe volte l’essenziale non è proprio invisibile agli occhi, insomma.
di Marzia Figliolia
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