La catacomba di Commodilla
di Veronica Nastri
Un messaggio graffito sull’intonaco per dare un avvertimento a chi celebra una messa.
La catacomba di Commodilla è posta in via delle Sette Chiese, non molto lontano dalla via Ostiense, nel quartiere Ostiense. Il nome, come per la maggior parte delle catacomba romane, trae origine dalla fondatrice o dalla donatrice del terreno su cui sorse il complesso cimiteriale ipogeo, il quale era conosciuto anche col nome dei due principali martiri ivi sepolti, Felice e Adautto.
Il cimitero sotterraneo si sviluppa su tre livelli. Il livello più antico e più interessante dal punto di vista archeologico è quello mediano, ricavato in un’antica cava di pozzolana, riutilizzata a scopi funerari: è in questo livello che si trovano le sepolture dei martiri, in una piccola basilica ipogea, ed è da questo livello che si è sviluppato il resto delle catacomba. Nel sopraterra non esistono monumenti, o resti di essi, in qualche modo connessi con la catacomba.
L’inizio dell’uso funerario della zona dovette probabilmente coincidere con l’abbandono dello sfruttamento delle cave. L’ingresso alla cava sul fianco della collina fu murato e venne sostituito da una scala per un accesso dall’alto, le cui tracce sono ancora visibili sulla parete est. Scoperta nel 1595 dal Bosio, la catacomba venne inizialmente chiamata “di Lucina”. La denominazione odierna venne data dallo Stevenson nel 1897, prendendo spunto dal nome di una sconosciuta matrona romana.
La particolarità di questa catacomba romana, è un graffito risalente al periodo tra il VI-VII secolo e la metà del IX che si trova in una cappella sotterranea, la “cripta” dei santi Felice e Adautto, la cui scoperta avvenne nel 1720. Subito dopo, una frana rese impossibile l’accesso al locale e nessuno entrò più nella catacomba fino all’inizio del secolo scorso (1903), quando l’iscrizione fu finalmente segnalata agli studiosi.
Secondo gli archeologi, la cappella fu utilizzata come luogo di culto fino al IX secolo, allorché i corpi dei due santi, prima qui sepolti, furono traslati altrove: a questo punto, inverosimilmente, il luogo cadde in abbandono. È logico pensare che l’iscrizione, incisa nello stucco della cornice di un affresco che risale al VI-VII secolo, sia stata tracciata prima dell’abbandono della cappella.
Abbiamo dunque due indicazioni cronologiche: un termine post-quem (VI-VII secolo, la data dell’affresco) e un termine ante quem (la metà del IX secolo, epoca dell’abbandono della cappella).
Dal punto di vista linguistico, il tratto più notevole si riscontra a partire dall’osservazioni della particolare grafia di a bboce (“ad alta voce”): la seconda B, più piccola, fu aggiunta successivamente nello spazio rimasto libero. Tale grafia rende in maniera fedele la pronuncia con betacismo (passaggio di V a B) e il raddoppiamento fonosintattico, tipico della parlata romana, oltre che dello standard italiano.
Il graffito si può così scrivere : “NON DICERE ILLE SECRITA A BBOCE”, ovvero “non dire (que)i segreti a voce alta”; probabilmente l’autore dell’incisione si accorse che la scrittura iniziale non rendeva appieno il dettato orale, e allora inserì la seconda B. Da notare anche secrita che va letto secreta, perché la i è semplicemente una grafia per è, secondo un uso che si riscontra nelle scritture pre-carolinge. Quanto a ille, si tratta del dimostrativo latino ormai adoperata in funzione di articolo.
L’interpretazione ci riporta a un ambiente religioso in cui, parlando di “segreti”, ci si riferisce a qualche cosa di molto tecnico e preciso: le “orazioni segreti” della messa.
Insomma l’iscrizione sarebbe dunque da attribuire a un religioso, forse un prete che celebrava il rito sacro nella catacomba, il quale voleva invitare i suoi colleghi a recitare a voce bassa il canone della messa, secondo un uso documentato a partire dal VIII secolo.