“Fugit amor”, l’abbraccio eterno di Rodin nell’arte contemporanea di Anselm Kiefer
di Sveva Di Palma
La bella Galleria Lia Rumma di Napoli, con il suo assolato terrazzo e i suoi colori chiari, fa da contenitore e cornice alla mostra dell’artista tedesco Anselm Kiefer, intitolata “Fugit amor”.
Anselm Kiefer, pittore, scultore e teorico dell’arte, classe 1945, nato a Donauschingen e cresciuto a Friburgo, non è nuovo sul palcoscenico dell’arte contemporanea partenopea.
Il Museo di Capodimonte, ad esempio, ospita opere famose dell’artista. La più emblematica è Mare nostrum, il grande olio su tela realizzato nel 2006, un’inquietante e bruscamente disturbante rappresentazione di un Mediterraneo plumbeo, inospitale, insondabile; non più la culla della civiltà, ma un guado burrascoso e sterile, realizzato con materiali ferrosi e pennellate materiche, grumose, scure, rugginose.
Kiefer miscela le arti ed insieme ad esse i suoi talenti, unendo pittura, scultura e teoria.
L’arte contemporanea è sperimentazione, scelta del brutto tanto quanto del classicamente bello, è una rivoluzione dei canoni estetici e degli strumenti d’approccio di cervello e occhio. Gli elementi prelevati da Kiefer e poi spesi nella concretizzazione in forma tangibile delle opere da egli ideate appartengono ad ogni tipo di materiale esistente, richiamando principalmente l’arte povera. Pezzi di oggetti assemblati in nuovo ordine, con nuovo scopo e parliamo dunque di sacchi, metalli, carte, disegni, tagli nella tela, plastiche, tubi, bottiglie, stoffe; quasi una raccolta indifferenziata di oggetti e/o utilità.
In Fugit Amor, il “riutilizzo” e l’“assemblaggio” è riproposto, in multiforme e polivalente fusione con una pittura più normalizzante, calmante. Il punto di partenza è l’omonima scultura dell’artista francese Auguste Rodin, un capolavoro assoluto, un apice irraggiungibile.
Anselm Kiefer crea con l’opera classica, armoniosa, equilibrata, un rapporto di tensione e opposizione, un dialogo d’amore a distanza. L’amore messo in scena dalla mostra, comunicato da opere confezionate e donate allo spettatore in teche di vetro – cubicoli trasparenti che racchiudono e al contempo espongono con vulnerabile semplicità – non è l’amore tormentato tra amanti raffigurato da Rodin, ma un amore per il tutto.
Un amore eterno, mitico, ancestrale; un amore che abbraccia i mali quotidiani, per i fiori e i petali caduti e riutilizzati, per cerotti, fogli, tronchi morti, aste di ferro, bulloni, assi, lamiere. L’amore per le cose inutili, perdute, inanimate. Un amore per la fatiscenza della modernità, quasi un riferimento alla “poetica del brutto” di ispirazione baudelairiana.
Kiefer immerge questo amore in una narrazione fluida di tempo e spazio, senza incatenarla in un susseguirsi cronologico, senza indagarne la logicità. Tempo e spazio sono trattati come un unico liquido amniotico che nutre e dal quale nascono i miti e i romanzi cavallereschi, l’immondizia e la natura, l’uomo e la sua storia, il bello e l’orrido, la religione e i tubi di scarico, la perfezione formale e la stortura, la morte assieme alla vita. Nulla merita amore più di qualcos’altro, perché in questo liquido tutto coesiste e vive, cambiando la sua forma, mutando, involvendo ed evolvendo senza sosta; tutto resta, tuttavia, amabile e venerabile, perché parte dell’esistente.
Kiefer, da artista poliedrico e uomo d’intelletto, ha immaginato e costruito un lavoro di religiosa solennità, sconvolgente modernità e grande ricchezza esegetica, fornendo al suo pubblico un’occasione di riflessione emozionante e dissestante, dimostrando, ancora una volta, quanto l’arte continui ad essere imperituramente il pungolo del pensiero.