Che lingua parla la poesia italiana oggi?
La libertà espressiva e l’anarchia linguistica de facto tra i parlanti dell’italiano contemporaneo dove ci porteranno?
Gli italiani di oggi riescono a distinguere l’italiano “coatto” dei liberi scrittori del web dall’italiano standard accademicamente accettato?
E soprattutto, qual è l’impatto che tutto ciò ha sulla lingua poetica contemporanea?
Molti intellettuali italiani, dall’inizio della seconda metà del Novecento ad oggi, hanno espresso le proprie opinioni e talvolta vere e proprie profezie sul futuro della lingua ufficiale del Bel Paese.
Da Pier Paolo Pasolini che profetizzava una lingua dominata dal russo e dall’inglese, a Umberto Eco che si poneva il quesito del sapere se i giovani di oggi riescano a diffidare dall’italiano “coatto” dei blogger amatoriali.
Le profezia di Pasolini si è avverata a metà: oggi il russo non rappresenta una grande minaccia per la purezza dell’italiano, ma l’inglese sì.
Lo sviluppo di una lingua tecnologica borghese, plasmata dalla necessità di non perdere terreno nella gara all’arricchimento del lessico tecnologico-scientifico moderno, ha lasciato poco spazio all’italiano espressivo “vecchio stampo”, fortemente legato alle Tre Corone, alla tradizione letteraria e al dialetto toscano.
Dunque che lingua dovrebbe parlare la poesia, oggi che lo sviluppo della lingua tende all’anglofonizzazione del lessico e al minimalismo formato slogan dei nuovi mezzi di comunicazione?
Come devono comportarsi i poeti moderni di fronte a questa nuova realtà linguistica? Devono ricorrere all’italiano espressivo ma obsoleto di fine Ottocento o lasciarsi andare all’italiano moderno, poco espressivo ma più fruibile?
È evidente il disagio dei poeti contemporanei che non sanno come rispondere alla questione, o meglio, non hanno ancora trovato un accordo comune.
Spesso online troviamo autori in erba che hanno accettato nel loro vocabolario termini come il “postare”, o magari il “visualizzare”, semanticamente legato alla funzione di conferma di lettura dei moderni social network.
Umberto Eco, in uno dei suoi ultimi discorsi in televisione, in occasione dei 150 anni dell’Unità D’Italia, ha espresso la sua opinione sulla “questione della lingua”, facendo un piccolo quadro del moderno rapporto dialetto-italiano standard. Secondo Eco, per quanto questo “carnascialesco” e per questo spesso denigrato, il dialetto ha mantenuto quella sua potenza espressiva, quella sua capacità di esprimere il dramma e la comicità con un’energia che non ha nulla da invidiare alle altre lingue più influenti del panorama linguistico mondiale (si veda la fortuna del napoletano nella musica classica e nel teatro del primo Novecento).
Eco giustifica questa tendenza affermando che il dialetto non ha avuto “università”, insomma, non è mai stato al passo con i tempi e non si è rinnovato in concomitanza delle nuove scoperte tecnologiche e scientifiche. Dunque il dialetto ha mantenuto quella sua natura semplice e genuina, la più diretta espressione dei sentimenti umani.
Prova della suddetta teoria si può trovare nelle scelte dei moderni autori di testi musicali, come il fenomeno neomelodico/R&B napoletano LIBERATO; riporto qui sotto alcuni versi di un suo brano (ME STAJE APPENNENN’ AMO’ – 2018):
M’arrevuot’ ‘o core
E po’ te ne vaje
Amm’ fatte ammore
Butdon’task me why
Ciento bombe all’ora
Stongo tutt’ I love you
È ‘na croce d’oro
Si tu non ce stai cchiù
Si tu non ce sta’ cchiù
È evidente come la mescolanza di due lingue differenti, e anche abbastanza lontane, come il napoletano e l’inglese, sia una scelta stilistica particolarmente efficace: l’autore ha saputo combinare l’accattivante potenza pop dell’inglese con l’energia espressiva ed emotiva del napoletano. Che sia questa la risposta ai futuri sviluppi della lingua poetica italiana?
In un Paese come il nostro nel quale vige, de facto, l’anarchia linguistica tra i parlanti (e ultimamente anche tra i più importanti mezzi di comunicazione di massa), non ci si sorprenderebbe se il prossimo poeta di spicco della letteratura italiana fosse un autore che propone una macedonia linguistica anglo-italiana.
Non c’è bisogno di andare a scomodare le statistiche e le relazioni dell’Accademia della Crusca per rendersi conto che la maggior parte dei neologismi italiani sono prestiti semantici o calchi da altre lingue, perlopiù termini tecnici. L’ultimo caso di neologismo made in italy (dicevamo) è stato il famoso, o famigerato, PETALOSO.
Seppur criticato, considerato “banale” e fortemente pubblicizzato dai media, il termine rappresenta uno degli ultimi baluardi della forza creativa ed espressiva degli italofoni che ancora oggi tentano di arricchire il lessico con nuove sfumature.
Nessuno viene più in soccorso della poesia, nessuno trova più nuovi modi di esprimere la natura umana.
L’italiano ha dovuto così tanto cedere ai forestierismi per mantenere la sua presenza nei dibattiti scientifici e tecnologici (in particolare nel campo dell’informatica) che ha quasi dimenticato come si parla d’amore.
Antonio Alaia