Old Boy: la fenomenologia della vendetta
di Marianna Allocca
Old Boy è un film coreano del 2003 diretto da Park Chan-Wook, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2004. Tratto dal manga omonimo di Nobuaki Minegishi e Garon Tsuchiya, il film fa parte della cosiddetta trilogia della vendetta del regista, iniziata nel 2002 da Mr.Vendetta e conclusa nel 2005 da Lady Vendetta.
Complesso, ambiguo e avvincente, Old Boy rientra in quell’esiguo numero di pellicole moderne che lasciano decisamente il segno e per cui rimani senza parole. Il protagonista, Oh Dae-su viene improvvisamente sequestrato e rinchiuso, senza alcun apparente motivo, per quindici lunghi anni, in una stanza buia e opprimente arredata solo di un televisore da cui scoprirà il brutale omicidio della moglie.
Durante la prigionia l’uomo viene drogato, ipnotizzato e negli anni sostanzialmente trasformato in un animale disperato, in pasto alla società. Rigettato dopo questo martirio in una città completamente nuova rispetto a quella in cui ha vissuto prima della reclusione, in una Corea ormai industrializzata e fatiscente, Oh Dae-soo vivrà solo in una prigione più grande: un mondo e una società a lui estranea. Incontrerà l’amore, ma l’unico sentimento in grado di fornirgli stimoli vitali sarà la vendetta. Una vengeance meditata e desiderata per anni che genera rivelazioni e inevitabili reazioni.
Concepito per essere fruito su molteplici piani di lettura, Old Boy è un film dall’impianto spettacolare e dalla scenografia notevole. Inoltre, vi sono sprazzi di enorme potenza visionaria che trovano nell’ottima interpretazione di Choi Min-sik il loro massimo risultato. “Se ridi, tutto il mondo riderà con te; se piangi, piangerai da solo”. Questa frase, ripetuta più volte dal protagonista, sintetizza il senso intimo di un’opera, ispirata a un manga giapponese, la cui originalità risiede nella messa in scena, nell’abile intreccio d’iperrealismo e nonsense, fra lacrime e sangue.
Il titolo traduce la forma mentis del protagonista, uomo che, paradossalmente fin dal nome, dovrebbe “star bene con gli altri” (significa questo Dae-Soo), prima e dopo la brutale reclusione. Il primo Dae-Soo è vecchio, maturo, alcolizzato,”smemorato” (Old); il secondo ringiovanito, costretto a ricercare nel proprio passato il senso del presente.
In quelle quattro mura della prigione il protagonista alimenta la sua vendetta, prendendo a pugni la silhouette del fantomatico sequestratore che ha disegnato sulla parete. Lontano dalla libertà, dal sole, dalla pioggia, l’uomo vive in una scatola illusoria: vi è una parete con una finestra fittizia, aperta su una distesa verde con tanto di mulino a vento. Il regista conduce lo spettatore in un vortice di passioni malate sempre più livido e allucinato, con l’andamento straziante di una tragedia greca.
Violenza e istinti brutali dominano le scene, dove persino l’amore è qualcosa di sbagliato. Lo stile di ripresa e montaggio, costituito soprattutto dai primi piani, anticipazioni sonore, efficaci interazioni tra flashback/passato e “presente”, dialoghi da programma di divulgazione scientifica (motivati dal fatto che nei quindici anni di prigionia l’unico contatto col mondo esterno del protagonista è stato giusto un apparecchio televisivo) accentuano il senso di angoscia claustrofobica e asfissiante provata dal protagonista. La sua fuga di uomo braccato, spiato e controllato non può che esplodere in una memorabile rissa in piano sequenza, in cui Dae-su affronta da solo, a calci, pugni e martellate, un fitto branco di aggressori.
Ma il film è ricco di colpi di scena, di avvenimenti sconvolgenti e crudi (il protagonista, sotto l’effetto dell’ipnosi, mangia un polipo vivo per poi svenire). In questo quadro, si inserisce l’incontro con Mi-do (Kang Hye-Jeong), commessa di un ristorante sushi, conosciuta poche sere dopo la sua liberazione, con la quale in poco tempo instaurerà una relazione sentimentale, ma dietro c’è ben altro, qualcosa di malvagio.
Dopo essere riuscito a risalire ai suoi rapitori, a Dae-su vengono concessi cinque giorni di tempo per risolvere l’enigma riguardante il motivo del suo rapimento, giorni frenetici nei quali, con un susseguirsi di colpi di scena riuscirà a capire il mistero legato alla sua adolescenza ai tempi della scuola. Quando tutto sembra essere chiaro e la storia pare non avere più niente da offrire, il regista con un gesto di rara maestria e genio offre allo spettatore un colpo improvviso che arriva diretto allo stomaco.
Tutto ciò che ha vissuto, in particolare l’incontro con Mi-Do la quale si rivelerà essere molto di più di una semplice amante, era frutto del controllo ipnotico utilizzato su di lui.
E proprio dopo questa rivelazione la vendetta, crudele e malvagia in una misura difficilmente immaginabile, prende corpo, trascinando Dae-su in uno stato di mistica umiliazione personale che lo porta ad inginocchiarsi ai piedi del suo rapinatore Woo Jin, chiedendogli perdono e umiliandosi nella speranza di ottenere pietà, nonostante tutto quello che ha passato a causa sua: colpevole del chiacchiericcio sull’incesto di Woo.
L’unico scorcio di colore e l’unica concessione alla vita, è quel rosso nel bianco della neve, simbolo di speranza e forse anche di riscatto, ma non di una nuova purezza, impossibile da raggiungere nel mondo sporco di Chan-wook Park.
Il regista: “[quello della vendetta] è un tema che mi interessa perché vendicarsi è un comportamento che non ha alcun senso, che non riporta in vita le persone che non ci sono più, eppure che spesso non si può evitare. Pur non avendo senso la vendetta richiede moltissime energie per portare a termine l’azione. Chi si vendica è consapevole del fatto che la sua vendetta non porterà a nulla, ma non è capace di fermarsi. Questa vacuità dell’azione con il dispendio di molte energie è un tema che mi affascina molto dal punto di vista psicologico”.