Vivere o sopravvivere
di Antonio Vollono
In un mondo dominato da notizie false, negazionismo e paure indotte, possiamo notare come l’intolleranza ogni giorno cresce verso colui che viene etichettato come “il diverso”.
Sono i sentimenti che ci rendono vivi, sentimenti come la paura che ci fanno capire se agire, difenderci oppure scappare.
Oggi viviamo nella paura, sentiamo il bisogno continuo e quasi ossessivo di difenderci, come se tutto e tutti volessero attaccarci senza un motivo ben preciso, come se fossimo sempre osservati e controllati: ciò distrugge la nostra serenità mentale, la nostra creatività. Dobbiamo trovare un porto sicuro dove passare il resto della nostra vita. Vogliamo sopravvivere e non vivere.
Vogliamo trovare una stabilità, anche a costo di demolire i nostri sogni solo per essere sicuri e sentirci più furbi degli altri. Ma lo siamo davvero?
Quante volte sentiamo dire frasi del tipo: “Trovati un posto fisso, fai un concorso per unente pubblico… Almeno ti realizzi!”
Ma ci “realizziamo” costruendoci una quotidianità grigia, scomoda, asfissiante, perché questo è il prezzo della stabilità.
E allora lì capiamo che forse il vero realizzarsi è mettere in atto le proprie forze per arrivare alla felicità, andare ogni giorno a lavoro contenti perché è il lavoro che ci piace senza pensar di star sprecando la propria vita.
Forse dobbiamo, finché possiamo, riunire tutte tutte le nostre forze per attuare un nostro progetto senza aver rimpianti o ripeterci all’infinito la frase “Ah, se avessi fatto così, forse…”
C’è da dire però che la paura è propria del momento storico che viviamo: dopo l’attentato delle Torri Gemelle si è visto il Mondo Occidentale crollare, la grande America attaccata mentre prima ci siamo sempre sentiti protetti al nome “Stati Uniti d’America”, quella grande America che dopo la fine dell’URSS sembrava non avere rivali, in grado di dominare fino alla fine dei tempi.
Ma il Sogno è dovuto soccombere di fronte alla realtà e, a ben vedere, le crepe sono state sempre di fronte ai nostri occhi e nulla ha potuto la narrazione yankee che ha sempre voluto dipingere gli Americani come i buoni. Basti pensare ai film western dove gli indiani d’America sono visti come i cattivi e gli aitanti cowboy come i buoni, quando poi conosciamo bene la tragedia del popolo pellerossa che è stato usurpato delle sue terre da parte dei “buonissimi” visi pallidi. Ci sono esempi anche più recenti, come Rocky IV, intriso del clima della guerra fredda, dove il protagonista, simbolo della Libertà a stelle e strisce distrugge il gigante dell’URSS, descritto a tinte fosche, come se fosse l’incarnazione di uno spirito liberticida.
Questa narrazione semplicistica non si limita alla celluloide, persino nell’ambito videoludico gli americani vengono visti come i buoni ed i popoli medio-orientali come gli eterni nemici.
L’odio prevale, e non è solo dovuto alla paura che attanaglia noi uomini della società del rischio, ma anche da un problema che sta assumendo dimensioni macroscopiche: la disinformazione. Su internet, e soprattutto sulle piattaforme social, fioccano le fake news, a volte create solo per deridere persone che, non educate a un corretto discernimento delle fonti, prendono per oro colato notizie che confermano i loro pregiudizi, che danno loro in pasto dei nemici, che portano avanti questa narrazione in cui c’è sempre qualcuno che vuole danneggiarli: dallo straniero che vuole espropriarlo della sua terra, fino ad arrivare persino agli intellettuali, strumenti di “poteri forti” non ben identificati e di fronte ai quali sembra valere di più l’esperienza di vita. “L’Università della Strada” come ateneo più ambito. Un paradosso.
La nostra generazione da ciò può trarre una grande lezione: il rischio non è solo fonte di ansia e paure, ma anche di opportunità ed esperienze. Difendersi dal rischio per poi condurre una vita sicura, sì, ma grigia e spenta, ci rende non più degli uomini ma degli automi. Il rischio, in fondo, è ciò che ci rende umani. Che sia una relazione, che sia un progetto, che sia una qualsiasi nuova esperienza, non dobbiamo avere paura di fallire. Potrebbe succedere, è vero. Ma poco male, l’importante è che ce l’abbiamo messa tutta, che abbiamo giocato tutte le nostre carte, anche solo per il gusto di farlo.
Dobbiamo realizzare i nostri sogni, dobbiamo insegnare alla nuova generazione il valore del rischiare e non quello di abituarsi a ciò che ci offre la vita ma di andare oltre e di rompere ogni singolo schema cercando la via migliore per essere felice.
Insegniamo alle generazioni del domani che niente c’è di più bello che il rischiare ed andare avanti perché quando si fallisce, potremmo dire: “Almeno ci ho provato e sono felice di aver fallito”.
Rendiamoli grati alla vita ed a tutto ciò che essi vogliano fare: ai loro sogni, alle loro aspirazioni. Distruggiamo il vecchio preconcetto che per anni ci hanno inculcato e rendiamo questo Paese terra di incontri, occasioni… avvicinandoci l’un altro con curiosità, mettendo da parte la paura.
Coi giusti mezzi e con il sostegno di tutti, potremmo imparare finalmente a vivere e non a sopravvivere.