La ruota degli esposti, ‘e figli d’ ‘a Madonna
di Anna Russo
Expositus o Proiectus, questo è il problema.
Beh, che dire, sebbene i due termini siano in qualche modo sinonimi, a Napoli non potevamo che scegliere il primo.
Perché sì, perché, in ogni caso, “’e figlie […]so piezz’e core”!
Non a caso esistono due cognomi abbastanza conosciuti in Italia, l’uno, Proietti, derivante da proiectus “gettato via”, l’altro, Esposito, da expositus “esposto alla pietà altrui”.
Vi starete chiedendo il perché di questa apparentemente inutile precisazione, ebbene chiarisco subito, perché a Napoli e, più precisamente, all’Annunziata, si verificò il primo caso in cui una “ruota” fosse costruita con l’unico scopo di accogliere bambini sfortunati, figli della miseria o della vergogna.
In altri luoghi, infatti, le “ruote dei gittatelli” erano semplici ruote di monasteri riadattate per la carità umana, ma a Napoli no, qui la solidarietà della gente ha preservato la sacralità della vita seppur in conseguenza ad un atto miserabile qual è l’abbandono di un figlio, ha permesso che queste povere creature non fossero lasciate ai margini della città, in luoghi isolati, esposti alla fame, al gelo, ai randagi affamati.
La Ruota degli esposti, probabilmente esistita già dal Trecento per volere della regina Sancia, ha costituito per molte madri la salvezza di un pezzo del loro cuore. Madri malate, terrorizzate dalla possibilità di contagio, madri in condizioni di estrema povertà, madri imbarazzate da un momento di leggerezza, madri umiliate da uno spregevole atto di sottomissione; queste erano le donne che, con il favore della notte, si recavano alla Ruota nel disperato tentativo di salvare l’anima innocente che avevano custodito in grembo, con la speranza e la promessa di ritornare a riscattare l’amata creatura.
“O padre o madre che qui ne gettate
alle vostre limosine siamo raccomandati.”
Questi i versi inscritti nel marmo sottostante il foro d’immissione, posto ad altezza d’uomo sulla parete esterna del complesso, a sinistra del portone d’ingresso.
All’interno, invece, la vera e propria ruota costituita da un mobile in legno (quello attuale risale al 1600) diviso in due vani: il torno, dove veniva posto il bambino, e “il vano delle fasciate nuove”, usato per riporre la biancheria.
Secondo il “rituale di immissione” la persona che portava il bambino alla ruota suonava un campanello esterno per poi fuggire via. Dall’altro lato, nella stanza, vi era sempre una monaca o una balia che verificava il contenuto della ruota, prendeva la creatura, la lavava, vestiva ed allattava per poi lasciarla al medico che si occupava di verificarne lo stato di salute e ad un prete che lo battezzava. Nel frattempo, nella stessa stanza vi era anche il rotaro, colui che si occupava del “verbale di immissione” per il quale il bambino veniva introdotto nel brefotrofio come figlio di A.G.P., Ave Gratia Plena.
Il rotaro appuntava la data dell’arrivo del bambino, assieme al suo numero progressivo e ad una lettera dell’alfabeto corrispondete all’anno (i numeri venivano assegnati in base all’ordine di arrivo durante l’anno, così il primo bambino di ogni anno veniva identificato con il numero uno e via di seguito), inseriva, inoltre, l’orario di arrivo, le caratteristiche somatiche, l’ipotetica identità dell’accompagnatore, il nome (se indicato o quello con cui era stato battezzato), la presunta età, le condizioni fisiche ed eventuali segni particolari.
Spesso i bambini abbandonati recavano con sé lettere, sacchetti, oggettini quali medagliette, immagini sacre, orecchini ed altro. Alcune madri, addirittura, segnavano in modo indelebile il corpicino del bimbo per poterlo riconoscere anche dopo anni, come avvenne per il famoso scultore Vincenzo Gemito.
I fogli su cui venivano appuntati tali segni e oggetti di riconoscimento venivano chiamati cartule, e coloro che non ne avevano venivano segnati come “venuto senza cartula”.
Ad ogni bambino che faceva accesso dalla ruota veniva messo al collo un laccetto con il merco, una sorta di medaglietta composta da due placchette di piombo unite con il torchio sulle quali veniva impresso, da un lato, l’immagine dell’Annunziata e, dall’altro, il numero di matricola. Napoli fu l’unica città a mostrare segno di grande civiltà utilizzando una medaglietta invece di marchiare a fuoco talloni o spalle dei poveri piccoli come, purtroppo, accadeva nei centri del resto d’Italia e d’Europa.
Il merco poteva esser tolto soltanto una volta usciti dal brefotrofio, nel caso in cui la famiglia d’origine fosse tornata o fosse avvenuta un’adozione; spesso le ragazze lo toglievano immediatamente prima delle nozze.
Per i bambini riconosciuti dai genitori, quindi legittimi, il merco era in rame e sulla matricola erano segnate due lineette.
La Reale Santa Casa dell’Annunziata accolse bambini da tutto il centro e sud Italia. Essa prometteva ed assicurava ai “figli della Madonna” accoglienza, assistenza e privilegi materiali e spirituali.
La Ruota dell’Annunziata fu chiusa il 27 giugno 1875.
Napoli fu l’ultima città a chiudere il foro d’immissione che salvò la vita a tante anime innocenti, anche se sopravvisse in alcune periferie.
foto di Chiara Antenucci
Passate per Napoli, passate per i vicoli e meravigliatevi.
E se passate, ricordatevi: l’associazione Manallart può guidarvi all’interno delle bellezze della città, grazie a loro, oggi, vi raccontiamo questa storia. Passate di qua.
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