“Like a Rolling Stone”: vita, morte e miracoli di una rivista
“Volevo fare il batterista, suonare con un gruppo rock, meglio che fare il giornalista e pensare sia un lavoro scrivere su Rolling Stone”.
Così recita l’inciso del brano Cabriolet di Salmo in coppia con Sfera Ebbasta e forse il punto, in una presunta avversione, lo centra proprio il rapper sardo, perché se a qualcuno fosse sfuggito, giusto un paio di mesi fa, proprio sulla copertina del magazine, in bella mostra con mani giunte a preghiera (forse in richiamo al pezzo di ironica redenzione Perdonami sempre nell’ultimo disco) e tatuaggi c’era proprio lui, Salmo reduce dalla fresca uscita dell’album Playlist.
Lui che, nonostante appaia scettico verso il ruolo istituzionalizzante e presuntuoso di giornalisti e carta stampata, asserisce però, nell’intervista allo stesso giornale, che vedere quella “fantomatica” copertina conquistata rimane quasi un punto d’arrivo.
Il controsenso in questione però è la lapalissiana affermazione di quanto “Rolling Stone”, sia, e ancor più nella sua versione cartacea, un feticcio iconico di cultura.
Sarà il riferimento a una delle più grandi rock band della storia, o di una copertina che ha segnato la storia mainstream mondiale, da Britney Spears a Barack Obama, da John Lennon e Yoko Ono a Dennis Rodman.
È notizia ormai ufficiale che la rivista smette di essere nella sua forma tangibile, abbandona le edicole per proseguire il suo percorso sul ben più redditizio formato online. Cinquant’anni di storia, mezzo secolo d’impegno sociale e civile e non soltanto nella sua versione a stelle strisce ma anche nella recente storia italiana.
Come si può dimenticare, solo la scorsa estate, quella forte e implacabile presa di posizione contro Salvini e il “salvinismo”: copertina arcobaleno, pro multiculturalità e coppie di fatto perché l’accettazione non è il taboo verso una lobby. Petizione di firme illustri dello showbiz e l’hashtag lanciato, “Not in my name” e il sano casino mediatico è servito.
Ha creato dibattito, per chi era scettico nel vedere quella simpaticona di Selvaggia Lucarelli “tuttologa” alla guida della redazione social della rivista (la prima con un twitt ad annunciare la fine della stampa in versione italiana della rivista, eh grazie tante), o Papa Francesco e Matteo Renzi in copertina.
Insomma Rolling Stone è stato disturbante e disturbatore quando ha dovuto, ma per me come per tanti altri è stato molto di più. Era un contenitore di controcultura o cultura dal basso che vogliate, ma anche analizzatore sociale di mainstream, passione viscerale per la musica ma anche cinema, letteratura, arte, fotografia (sia lodato Giovanni Gastel e il lavoro certosino e sublime svolto con loro) e tanto ancora.
Ma poi c’eravamo noi, quella generazione di trentenni in equilibrio precario, tra “apocalittici e integrati” come direbbe Umberto Eco, tra la nostalgia dell’icona fisica, un disco o quell’odore di carta patinata che trovavi ogni mese alla tua edicola di fiducia e l’integrazione con la costruzione di una nuova identità online, fatta di fruizioni veloci e informazione caotica come la metropolitana in ora di punta.
Certo i numeri parlano chiaro, il sito ha 2,5 milioni di utenti unici, 435mila follower su Facebook e 231mila su Instagram e come dargli torto, soprattutto per asciugare la libidine dei pubblicitari al fronte delle poco meno di ventimila copie vendute stampate.
Il dibattito terrà ancora piede, nell’universo dei prodotti on demand, tra la scomparsa della tradizionale tv e le piattaforme streaming o della carta stampata che cede il passo a internet. Nella speranza di una conscia e sana coesistenza tenetevi stretti i vostri vinili, i vostri libri, i dischi e chi come me, la propria collezione di Rolling Stone, nel frattempo alla brutalità xenofoba e sessista diciamo ancora #Notinmyname.
Claudio Palumbo
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