La bella stagione che se ne va
Di Anna Russo
«Non lontano dalle mura di Enna c’è un lago denominato Prego; l’acqua è profonda. […] Qui la primavera è eterna. In questo bosco Proserpina si divertiva a cogliere viole e candidi gigli, […] quando Plutone la vide, se ne innamorò e la rapì. Tanto precipitosa fu quella passione»
Ovidio, Metamorfosi V, 385-396
Così cantò Calliope del rapimento della bellissima ninfa che sacrificò la sua vita per donare agli uomini la bella stagione.
È stupefacente come un ventitreenne Gian Lorenzo Bernini sia riuscito a scolpire nel candido marmo di Carrara tutto il pathos di un impetuoso Plutone nell’atto di rapire e stringere a sé la terrorizzata ninfa Proserpina che, a sua volta, con quanto fiato ha in gola, grida aiuto e con le deboli mani respinge l’appassionato dio.
L’opera fu eseguita tra il 1621 ed il 1622 su commissione del cardinale Scipione Caffarelli-Borghese e fu collocata nell’omonima villa. Sorprende la capacità dello scultore di rendere le figure notevolmente realistiche nonostante la posizione innaturale dei corpi che si muovono come in una spirale, a riprendere il vortice della passione che attanaglia il dio. Lo stile prettamente barocco è sottolineato dalla capigliatura e dai riccioli scomposti che denotano un sapiente uso del trapano. La possente muscolatura del dio marca il contrasto con la giovanile sensualità del corpo della vergine che tenta in tutti i modi di sfuggirgli.
Si narrava che la Trinacria, antico nome della Sicilia, fosse una grossa isola ammassata sulle membra del gigante Tifeo che cercò di conquistare il cielo e che per punizione rimase schiacciato sotto grandi rocce dalle quali cercava di liberarsi dimenandosi. Tale era la sua ferocia da smuovere città e montagne. Finché la terra tremò a tal punto che il re degli Inferi temette che il suolo potesse squarciarsi e che tutti i segreti del regno dei morti potessero essere svelati. Fu allora che Plutone decise di uscire dalle tenebre per ispezionare la terra e ignaro dei pericoli fu colpito dalla freccia di Cupido. Il re dei morti si innamorò perdutamente della bella Proserpina, figlia di Cerere, e senza esitazione l’afferrò e la trascinò con sé nel buio regno. La dolce ninfa urlò forte ma nessuno corse in suo aiuto, soltanto l’ultimo straziante grido fece eco tra i monti e giunse all’ignara madre. Cerere, la dea della fertilità e dell’abbondanza, vagò per mari e per monti ma dell’amata figlia non ebbe traccia. Decise, così, di far marcire tutti i frutti della terra, portando ovunque carestia e siccità. Gli animali iniziarono a morire e gli uomini, indeboliti, si ammalarono. Nessun dio riuscì a persuadere Cerere dal suo dolore. Soltanto Giove, impietosito e affranto per la perdita della figlia, poté ridonare alla dea una speranza. Permise che Proserpina tornasse dagli inferi ma soltanto a patto che non avesse mangiato nulla nel Regno dei morti. La ninfa, però, si lasciò tentare da sette granelli di melagrana che le costarono il legame indissolubile col re delle tenebre. Il dio dell’Olimpo non ebbe altra soluzione che concedere la mano della sfortunata figlia a Plutone che, in cambio, permise all’adorata moglie di risalire sulla terra per pochi mesi ogni anno durante i quali la ninfa e l’amata madre si riabbracciano e i fiori sbocciano, i frutti maturano, i semi germogliano. Sulla terra è primavera.