Lisbona periferica: la voce della resistenza nera
Il boom turistico degli ultimi anni, che ha innescato un inatteso miracolo economico nel paese dei garofani, ha reso Lisbona una capitale eclettica e multietnica agli occhi dell’Europa, una roccaforte di radicate tradizioni ma aperta all’integrazione del diverso. Tuttavia, in questo idilliaco scenario di crescita e cosmopolitismo, si insinuano narrative di marginalizzazione e degrado delle minoranze etniche, che affiorano sempre più nitide e reclamano a gran voce visibilità.
Nel paese dai brandos costumes esistono cittadini portoghesi trattati ancora come immigrati, ma ci si vanta delle politiche di integrazione. Si afferma di non badare al colore della pelle, ma vi è una quasi totale assenza di neri in posizioni di spicco, come l’Assemblea della Repubblica, i media, le banche, l’editoria. Nel paese che si è rivelato il grande pioniere del commercio transatlantico di schiavi, uno dei più grandi genocidi dell’umanità, la disuguaglianza è una pratica secolare, radicata e ciclica, che non è stata capace di convertirsi nel suo motore di autocorrezione. Esiste, in questa terra dai “costumi miti”, un patto di silenzio sulle condizioni di disuguaglianza di alcuni e i vantaggi di altri, che occulta l’essenza di una società inebriata dalla mitologia del non-razzismo.
Nello spazio della Lisbona contemporanea basta prendere il treno della linea di Sintra o dirigersi a Loures, in prossimità dell’aeroporto, per verificare come la città sia organizzata in modo segregato, proprio come ai tempi del colonialismo, con un addensamento dei bianchi nel centro urbano e uno smistamento dei neri nelle periferie, in costruzioni precarie.
La frattura tra la vita appartata del centro e la vita periferica del ghetto è evidente: oggi gran parte dei migranti abita geografie spazialmente segregate, sperimenta lavori degradanti, immobilismo sociale e precarietà nel cuore di una città globale attraversata da multipli flussi migratori.
Le migrazioni postcoloniali dei retornados e degli antichi soggetti coloniali, oggi assimilati agli immigrati, hanno prodotto infatti comunità diasporiche abitate da tensioni sociali e interrazziali culturalizzate.
Fu proprio con la fine del colonialismo che molti portoghesi entrarono in contatto con questi “altri” che si stabilirono nelle zone periferiche di Lisbona, in abitazioni illegali e quartieri di auto-costruzione, che raccontano micronarrative di marginalizzazione e invisibilità, imprimendo una marca personalissima all’immagine della città e alterandone visibilmente la morfologia sociale e razziale.
Dati recenti confermano la forte presenza urbana dell’immigrazione, in particolare nella città di Lisbona, che accoglie quasi metà dei 417042 immigrati registrati in Portogallo dal Serviço de Estrangeiros e Fronteiras nel 2012, di cui un’importante percentuale è originaria di paesi di lingua ufficiale portoghese (25.3% brasiliani, 10,3 % capoverdiani, 4,9% angolani, 4,3% guineensi e 2,5% saotomensi).
Nei quartieri tradizionali lisboeti – come l’antico ghetto moro-giudaico di Alfama – i loro figli, nati a Lisbona, sono relegati in non-luoghi, quartieri sociali che forniscono le notizie sensazionalistiche sulla criminalità, sulla violenza e sulla differenza, in modo che la maggioranza europea possa così convincersi della superiorità dei propri costumi.
L’indigeno lisboeta vede, infatti, con diffidenza l’invasione di luoghi di svago da parte dei giovani di colore e la presenza africana a Lisbona è ben vista solo quando serve alla mercificazione della città come spazio cosmopolita globale, poiché la giustapposizione dell’esotico al familiare assicura vitalità e favorisce interessi economici.
L’interculturalitá dunque non è che un’idea fasulla di convivialitá meticcia, un “vantaggio della diversità” che finisce per occultare le reali condizioni di marginalizzazione in cui vive gran parte di queste popolazioni.
Per alcuni immigrati Lisbona è percepita chiaramente come proprio luogo d’origine, mentre per altri è difficile sviluppare un genuino senso d’appartenenza a causa di un’integrazione spesso problematica e di una fraudolenta rappresentazione mediatica di matrice razzista.
Sono proprio le innumerevoli combinazioni di risposte alla questione identitaria a essere portate alla luce in Djidiu-A Herança do Ouvido, un progetto sperimentale di resistenza culturale e politica nera che, tra il marzo 2016 e il marzo 2017, ha coinvolto un nutrito gruppo di persone di colore nella produzione e divulgazione di testi scritti di proprio pugno o di autori considerati rilevanti per riflettere sulle molteplici declinazioni del vissuto da afrodiscendenti in Portogallo.
L’iniziativa è nata con l’intenzione di creare abitudini di espressione e di “educare” i soggetti partecipi a pronunciarsi sugli argomenti toccati – da micro e macro-aggressioni al concetto di Africa positiva, dalla tradizione all’appropriazione culturale, dalla rappresentatività alla coscienza negra – tra cui risulta insistente, forse costante, la presenza della violenza razziale, che invade ferocemente la quotidianità delle soggettività nere.
Le narrazioni sono figlie dell’osservazione socio-antropologica della morfologia urbana della città, che racconta, nelle sue strade e nei suoi quartieri, le storie ibride di portoghesi africanizzati e di africani portoghesizzati.
Viene ritracciato così il concetto di afrolisboeta, un’identità mista nata da un congiunto di ricchezze culturali, che designa colui/colei che conserva il gene africano, che ha un connaturato swing nei piedi, ma che si è cucito/a addosso attitudini tipicamente europee, abitando Lisbona come se fosse la propria terra madre, lo spazio urbano scelto come luogo del proprio vissuto. È inoltre un’occasione proficua per fornire alle persone coinvolte le necessarie armi intellettuali di auto-difesa in situazioni di discriminazione razzista.
Come attuare dunque il cosmopolitismo se la città postcoloniale persiste come dispositivo di esclusione? A tal proposito Peggy McIntosh esorta a riflettere sul “privilegio bianco”, un leggero e invisibile zaino di provviste speciali, vantaggi che le persone bianche danno per scontato, concependo la propria vita come moralmente neutrale.
La studiosa americana ne ha identificato alcuni effetti riscontrabili nella quotidianità – come la possibilità delle persone bianche di vedersi ampiamente rappresentate dai media o di esprimere pareri critici sulla politica senza essere etichettate come “cultural outsiders” – conseguenze che danno prova di quanto la pelle bianca sia una corazza che protegge dall’ostilità, dall’angoscia e dalla violenza, una caratteristica fenotipica che de-razzializza le identità.
Esorta quindi a riconoscere le dimensioni invisibili del nostro sistema sociale per ridisegnarne la fisionomia, per arginare questa non-consapevolezza del vantaggio bianco che contribuisce ad affidare il potere sempre nelle stesse mani, perpetuando relazioni asimmetriche ereditate dalla storia.
Riflettiamoci.
Francesca Eboli