La villa dei mostri
Bagheria, Sicilia, 2018.
Il mio quinto senso e mezzo mi ha trascinata qui, o forse sono state le voci di corridoi aperti del traghetto. O forse ancora il film che mette in scena questo monumento, o i siti di viaggi che ti consigliano luoghi particolari.
E allora ci vado a visitare Villa Palagonia, la cosiddetta “villa dei mostri”, e no, sull’ingresso non c’è scritto di lasciare ogni speranza ma di lasciare cinque euro per entrare.
Secondo il dépliant, la costruzione di questa villa, ora appartenente alla famiglia Castronovo, iniziò nel 1715 per volere del Principe di Palagonia, Don Francesco Ferdinando Gravina, e i lavori furono affidati ad un frate domenicano e architetto, Tommaso Maria Napoli, insieme ad un altro noto professionista siciliano, Agatino Daidone.
Al nipote del fondatore, Francesco Ferdinando Gravina e Alliata, detto il negromante, si deve quell’aspetto della villa che l’ha resa famosa e visitata da persone di un certo calibro. Sì perché a parte me, anche Goethe e Dalì hanno avuto modo di respirarla e di innamorarsene, ma soprattutto di constatarne lo squilibrio.
Il primo la definì opera deforme, pazza e caotica. Il secondo, per niente estraneo a questi aggettivi, in piena sintonia con essa, voleva acquistarla come residenza estiva.
Ma qual è l’aspetto in questione?
Niente di che, solo una schiera di statue, deformi nell’insieme, che circondano e decorano la villa, piccole inquietudini in pietre di tufo d’Aspra.
Le vedi tutte lì, figure antropomorfe e caricaturali, statue di dame e cavalieri, musicisti, esseri mitologici, gobbi, animali fantastici (e dove trovarli). Ora vi aspetterete che vi dica che mi sento gli occhi puntati addosso, che mi fissano, lapidandomi con sguardo immobile e solcato da intemperie e tic tac dell’orologio.
E invece no, stanno per fatti loro, impiegano il tempo a mostrarsi nell’impassibilità del momento che ha colto lo scultore, fanno ciò che devono: suonano, si relazionano, si mettono in posa, si mantengono immobili sulle tegole che le sorreggono, ascoltano l’eco del paese antistante.
Ovviamente, l’immaginario ha tessuto leggende e miti intorno a loro, caricandole di valenze simboliche e significati che fondamentalmente non possiamo conoscere.
Perché sono state costruite? Come mai il custode del palazzo disse a Goethe di non sedersi sulle sedie perché alcune avevano le zampe segate in maniera diseguale e avrebbero creato squilibrio, mentre sotto i cuscini erano nascoste delle spine?
Vorrei potervi dire che la risposta la darò nella puntata successiva, ma non è così. I motivi della follia o del bizzarro gusto barocco di chi ha commissionato queste opere grottesche non li cercheremo.
Planimetrie e architettura a parte, un altro è l’aspetto affascinante che muove lo sguardo verso una prospettiva più alta: se le statue lo portano a mezz’aria, la Sala degli Specchi, lo farà puntare direttamente al cielo del soffitto, ricoperto interamente di specchi, di vostre immagini speculari appannate dal tempo passato, da diverse angolature e forme.
Scheggiati nel vetro, opachi nel tempo e col torcicollo, questi siete voi, qui, adesso a farvi catturare dalla memoria perpetua di quel materiale soffiato che ha raccolto, riflettendoli, molti di loro.
“Specchiati in quei cristalli e nell’istessa magnificenza singolar contempla di fralezza mortal l’imago espressa”
Così sarete accolti in questa grande sala, una delle tante, ma sicuramente quella più stravolgente, da cui non entrerete in nessun Wonderland, ma attraverso l’uscita tornerete nel mondo reale.
Maria Cristiana Grimaldi