Gilgamesh e Enkidu: la prima storia d’amore è tra due uomini
Catullo, nel famoso Carme 72 ( I secolo a.C.), affermò la differenza tra amare e bene velle: uno significava adorare passionalmente, di un amore carnale prettamente fisico; l’altro, invece, significava provare affetto e forte stima.
Ancora oggi non è chiarissima la natura del rapporto tra il mitico re sumero di Uruk, Gilgamesh, e il selvaggio Enkidu narrato nella leggendaria Epopea di Gilgamesh ma, prendendo come criterio il bene velle catulliano, possiamo dire che fu una storia d’amore di una potenza unica, primordiale.
“Gilgamesh quindi lo abbraccia e lo ama come una moglie” tratto da Epopea di Gilgamesh.
Partiamo con il ricordare che l’Epopea di Gilgamesh è il primo poema epico della storia della letteratura universale. Scritto in babilonese a caratteri cuneiformi, l’opera risale al III millennio a.C. circa, più di cinquemila anni fa!
Il poema parla del rapporto tra Enkidu, un giovane “guerriero primitivo” mandato dagli dei in terra e cresciuto con gli animali delle foreste, e il bello e forte Gilgamesh, l’eroico re sumero di Uruk.
Il loro travagliato rapporto nasce da uno scontro fisico fra i due che però termina con una pacifica risoluzione che sancisce la pari forza di entrambi i guerrieri. Da lì iniziano le loro peripezie in giro per il mondo: grazie alla loro intraprendenza, la loro forza e il forte legame che c’era tra i due, arrivarono a sfidare persino gli dei, uccidendo il famigerato Toro Celeste e il divino guardiano Hubaba.
Questo, purtroppo, segnò anche la condanna a morte di Enkidu che poco dopo subì la vendetta degli dei: si ammalò e dopo giorni di agonia morì.
Il pianto di Gilgamesh era interminabile, lo corrodeva dal mattino sino alla sera, una parte di sé era morta con il suo compagno.
Gilgamesh era anche terrorizzato dalla morte: Enkidu, un suo simile, un uomo dalla forza pari alla sua, egli stesso inviato dagli dei non ha potuto fare nulla contro il soffio della morte.
Il re sumero si rese conto di non poter nulla contro il fato e, con un ultimo sforzo, si lanciò alla ricerca della pianta dell’immortalità.
La sorte del mio amico pesa su di me:
per sentieri lontani ho vagato nella steppa.
La sorte di Enkidu, il mio amico, pesa su di me:
per sentieri lontani ho vagato nella steppa.
Come posso io essere tranquillo, come posso io essere calmo?
L’amico mio che amo è diventato argilla;
Enkidu, l’amico mio che amo, è diventato argilla.
Ed io non sono come lui? Non dovrò giacere pure io
e non alzarmi mai più per sempre?
L’eroe riuscì a trovare il potente strumento di vita eterna ma, stanco per le innumerevoli peripezie, si addormentò su un pozzo e un serpente mangiò la pianta: il male, da lì in poi, sarebbe vissuto per sempre.
Gilgamesh voleva vivere per sempre, così da mantenere il ricordo dell’amico infinito ma ormai tutto era perduto.
Peccato che però la storia non finisca così.
La potenza dell’amore attraversò gli Inferi e ascese agli occhi e alle orecchie di Gilgamesh; ancora una volta Enkidu era venuto in soccorso del suo amato rivelandogli il segreto della vita eterna:
Gilgamesh, riempi il tuo ventre! Giorno e notte rallegrati, ogni giorno fa’ festa, giorno e notte danza e canta! Sia pulito il tuo vestito, il tuo corpo sia lavato, con acqua tu sia bagnato. Rallegrati del piccino che afferra la tua mano, la moglie goda del tuo grembo! Questo è il compito dell’umanità.
Antonio Alaia
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