“Io, l’intruso”: la sindrome dell’impostore
“Je est un autre” (“Io sono un altro”), scrive il poeta francese Arthur Rimbaud nelle sue lettere a Georges Izambard.
Io non sono io, sono altro da me, al di fuori, estraneo a me stesso.
Ma cosa vuole dire, precisamente?
Lui parla dell’essere Veggente, superiore alla mera vista umana, lui parla del ruolo del Poeta. Ma questo senso di estraniamento, di alienazione dalla propria stessa persona può appartenere a una suggestione molto meno alta: parliamo di una moderna patologia ribattezzata dagli psicologi come “Sindrome dell’impostore”.
Il termine “Sindrome dell’impostore” ha origini relativamente giovani: fu coniato dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes nel 1978. Tuttavia, questo malessere in diffusione non è ancora riconosciuto come disturbo mentale. Viene considerata, alla pari dell’effetto di Dunning-Kruger (a essa speculare), una distorsione cognitiva.
Ma in cosa consiste? Quali effetti causa sulla vita di coloro che ne soffrono? Che problematiche implica?
Tra le varie patologie estese alle persone “sane”, potrebbe essere una delle più dolorose e difficili da superare, in quanto causa all’individuo sofferente l’impossibilità di percepirsi correttamente ai propri occhi.
Prendere 30 e lode a un esame universitario. Completare un progetto. Avere una promozione. Ottenere un riconoscimento pubblico. Ognuna di queste cose può essere identificata come una gioia, un traguardo, un merito da riconoscersi. Senza alcun dubbio, a una mente lucida, esse appariranno come un successo. A una mente piagata dalla sindrome dell’impostore, tuttavia, questi raggiungimenti sembreranno falsi, ingannevoli. I successi saranno attribuiti a elementi esterni, quali il caso o la fortuna, ma mai alla propria intelligenza o caparbietà.
È qui che “io” diventa “un altro”: il mio trionfo non mi appartiene, io non sono l’immagine che l’occhio altrui riflette, sono un impostore, non merito nulla di ciò che ho. Alla consapevolezza di non essere all’altezza della propria reputazione si aggiunge un’altra, ancor più dolorosa, paura: la coscienza del fatto che, prima o dopo, l’impostore sarà rivelato per quello che è, pubblicamente individuato come intruso indegno e quindi, conseguenzialmente, cacciato.
Questa incapacità nel sentire propri i successi personali è, tristemente, un male di cui soffrono principalmente le donne, le quali hanno statisticamente maggior difficoltà a sentirsi protagoniste delle loro vittorie. Come si può, dunque, lottare contro tutto ciò?
Saper gioire delle vittorie e costruire un’identità somigliante il più possibile a ciò che concretamente siamo e abbiamo? Guarire.
No, non ho una risposta utile a queste domande. Io sono una di quelli piagati, irrecuperabilmente e innegabilmente. Scrivere delle proprie insicurezze spesso aiuta ad afferrarle, a guardarle per quello che sono, a chiarirsi con se stessi. A volte, è l’unico modo che si ha per ammettere di avere un problema, vederlo nero su bianco, parole leggibili su una pagina.
Ma poi, rileggendo ciò che si è scritto, si ha la netta impressione che anche quella pretesa di essere abili e chiari nello scrivere sia tutto sommato un inganno, il frutto del lavoro di un impostore. “And you’re back to square one”, penserebbero gli americani.
Io è un altro. Solo questo è reale. E l’altro che sono io non è da me conoscibile, perché appartiene al mondo, all’idea che il mondo si è formulata di lui. La sua caparbietà, la sua intelligenza, la sua prontezza. Non la mia. Io non sono “quello”.
Lui è solo l’estraneo che vive dentro di me e fa credere che io sia ciò che non sento di essere. Lui è l’impostore, l’ingannatore. O lo sono io?
Sveva Di Palma
Vedi anche: Umberto Eco nel paradiso degli artisti