“L’angelo che disse Amén”: Dario Scognamiglio ed il romanzo corale
Il vero fascino del recensire le opere prime è riscoprire il senso dell’avventura, della sfida. Non vi è molto materiale di confronto, altre recensioni a cui appigliarsi, parole altrui a fare da scheletro e struttura portante. Bisogna leggerla con attenzione, un’opera prima. Dedicarle una lettura attiva, dimenticare i tropi conosciuti per affrontarla con apertura e necessità di scoprire.
Così ho provato ad approcciare “L’angelo che disse Amén”, il primo romanzo del filosofo e criminologo Dario Scognamiglio. Mente lucida e sgombra, pensiero attivo, cuore vuoto.
Dario Scognamiglio, classe ’75, nato a Napoli – usando le sue stesse parole – “…tra la guerra in Vietnam e la proiezione del primo episodio di Goldrake”, è uno scrittore giovane, nuovo sul panorama editoriale, un semi – sconosciuto. Ha una laurea in filosofia ed una specializzazione in criminologia, dati che promettono bene, che preludono ad una curiosità scientifica per l’umano. Il nome poco diffuso non deve scoraggiare, anzi, è una premessa essenziale per poterne apprezzare l’opera. Nessuno potrà aspettarsi nulla, nessun preconcetto, solo la lettura. Potrà sembrare ridondante e comodo citare nuovamente le parole dell’autore stesso, ma le parole hanno il dono di racchiudere perfettamente il senso più vero delle cose, quando sono ben scelte. “L’Angelo che disse Amén è il lavoro a cui tengo di più, in cui ho cercato di descrivere il mondo esattamente come appare ai miei occhi: totalmente surreale…”, si legge sul retro del libro dello scrittore. In una presentazione semplice, scevra da orpelli, Scognamiglio introduce se stesso ed il suo romanzo in modo magistrale, incuriosendo il lettore e attirandolo nel proprio mondo. Ogni libro crea un mondo, potremmo osservare. Certo, è così. Ma alcuni sono più interessanti di altri, sarà qualcosa nella scelta dei temi, nei personaggi, nell’atmosfera data dall’insieme. Alcuni libri sono mondi completi, che esistevano prima della nostra lettura e continueranno dopo. Suppongo sia questo che definisce l’efficacia di uno stile, la funzionalità di una scrittura, l’abilità nel creare la magia. Scognamiglio offre una realtà nella quale entrare è facile, anche se non immediato. L’attesa è creata ad arte, con grande proprietà e consapevolezza, la storia narrata non va ingoiata a forza, ma somministrata a piccole dosi.
Serve tempo, per scoprire, per costruire un immaginario.
I primi capitoli del libro sono come un corridoio, quelli centrali come porte semiaperte nelle quali sbirciamo i nostri personaggi, i finali un culmine, il climax, la rissa. “Un romanzo corale, dove una serie di improbabili personaggi (studenti ambiziosi, baroni universitari, medici complessati, poliziotti nevrotici, un garagista che cerca l’illuminazione, un cieco muto e sordo, una bambina) si incrociano e condizionano a vicenda, costretti a misurarsi l’uno con l’altro, per arrivare ad un epilogo scioccante, all’unica verità che li accomuna tutti”, scrive ancora Scognamiglio della sua storia. Ma anche questo è solo un incantesimo, uno stratagemma per irretire il lettore, un canto sirenico verso l’indefinibile creatività di questo artista. La verità comune e millantata, usata come manifesto e fulcro, come promessa, non sarà mai rivelata. I personaggi, ben caratterizzati e pieni di vita, sono su un sentiero tracciato ma mai chiaramente definito, la loro strada non è mai banale. L’opera prima cattura, trascina, emoziona, sconvolge. Non si sa se voglia insegnare qualcosa o no, se la morale sia così ben nascosta da sfuggire ai nostri occhi, se siamo ciechi o se non ve ne è nessuna e quel senso di arricchimento è solo il frutto di una scrittura solida e studiata. Il mistero, il “surreale” è l’elemento davvero funzionante del tutto, l’ingranaggio che permette il movimento della macchina, il cuore dell’opera. Un libro che non ha ambientazione o, meglio, la cui ambientazione è un luogo non – luogo, in un tempo non – tempo, localizzabile nella modernità da certi elementi identificabili ma la cui apparizione è comunque incerta, fugace. L’importante è la storia delle persone – personaggi, delle loro paure e del loro incontro – scontro. Il fattore puramente umano si fonde con l’irrealtà del contesto e degli svincoli narrativi per sviluppare l’intreccio in modo comprensibile ad un pubblico vasto, eterogeneo. Il libro è inteso per tutti, è accessibile nella sua eterea poliedricità. Semplice non è poco ricercato, au contraire.
L’opera prima dunque riesce, la mente è ancora più attiva, il pensiero altrettanto, il cuore sgombro è riempito. La città di Napoli ha un’altra voce, un pensiero ed un talento da reclamare a sé e alla vitalità d’immaginazione che essa fornisce a coloro che sanno apprezzarne la complessa, convulsa bellezza.
Sveva Di Palma