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Le interfacce cervello-computer: utopia o distopia?

Controllare un computer con la sola forza del pensiero: per quanto possa sembrare fantascientifico, non siamo in un episodio di Black Mirror ma nella realtà del 21esimo secolo.

Per le persone fisicamente impossibilitate, comunicare attraverso un’interfaccia cervello-computer può essere la svolta in grado di cambiare la loro vita per sempre. Ma se immaginassimo un’applicazione su larga scala di questa tecnologia, sarebbe forse possibile distinguere il debole confine tra utopia e distopia?

“Le mie aspettative sono state ridotte a zero quando avevo 21 anni. Da allora, tutto è un bonus. Ho vissuto cinque decadi in più di quanto predetto dai medici. Ho provato a fare buon uso del mio tempo. Poiché ogni giorno può essere l’ultimo, voglio sfruttarne ogni minuto”.

[Stephen Hawking sulla sua malattia]

Chi meglio di Stephen Hawking sapeva quanto una grave limitazione motoria potesse compromettere la vita e la carriera di una persona o addirittura del progresso scientifico, nel suo caso?

L’astrofisico morto a Cambridge all’età di 76 anni – contro le aspettative di ogni medico – era quasi totalmente immobilizzato a causa di una sindrome correlata alla SLA, l’atrofia muscolare progressiva. Nel 1985 era ancora in grado di parlare, ma a seguito di una serie di polmoniti, una tracheotomia e l’aggravarsi della malattia, nel corso degli anni perse prima l’uso delle corde vocali e poi quello delle dita. Intel fornì allo scienziato una tecnologia che, sfruttando i movimenti del muscolo della guancia, gli permettesse di selezionare i caratteri da una tastiera e scrivere, aggiungendo poi un sistema di inserimento automatico basato sui suoi scritti – per velocizzare il processo di scrittura tarandolo sulle sue teorie – e un sintetizzatore vocale finalizzato a riprodurre con la sua caratteristica voce robotica quanto scritto.

Ciò che però non si riuscì a mettere a punto, nel caso di Hawking, era un’interfaccia cervello-computer. Dopo decenni di utilizzo del sistema perfezionato da Intel, i segnali nervosi dell’astrofisico erano troppo deboli per essere identificati e utilizzati da una tecnologia di quel tipo; non fu così possibile neanche realizzare una sedia a rotelle con la quale lo scienziato avrebbe potuto spostarsi con la sola forza del pensiero. Prima di discutere di quali potrebbero essere stati i rischi dell’applicazione di una tecnologia del genere a un’icona della scienza come Stephen Hawking, vediamo nel dettaglio di cosa si tratta e dei principi del suo funzionamento.

Un’interfaccia cervello-computer, o BCI (acronimo inglese di brain computer interface), è un dispositivo che mette in collegamento diretto l’attività cerebrale con un computer, che consente ai suoi utenti di controllare un dispositivo computerizzato senza la mediazione di alcun movimento muscolare.

Uno degli obiettivi delle tecnologie BCI in campo medico è dare assistenza, supporto a una vasta gamma di pazienti neurologici, fornendo loro un modo per riparare le funzioni cognitive e sensomotorie compromesse dalle diverse patologie, tra cui troviamo la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la distrofia muscolare o la lesione spinale.
Alla base del funzionamento delle BCI c’è la possibilità di identificare e misurare l’attività cerebrale, decodificare i segnali captati ed eseguirli per controllare un elemento hardware (come un braccio robotico o una sedia a rotelle) o un software esterno (come il cursore di un PC o una tastiera virtuale) direttamente attraverso il cervello.

Le interfacce cervello-computer possono essere invasive o non invasive: le prime interfacciano il sistema cerebrale attraverso l’impianto chirurgico di un dispositivo hardware nel sistema nervoso centrale, le seconde – invece – per farlo adoperano tecnologie di neuroimaging quali l’elettroencefalografia (EEG) e l’elettromiografia (EMG), che analizzano le onde cerebrali per mezzo di elettrodi dall’esterno del cranio.

Oltre alle inevitabili ripercussioni fisiche o eventuali complicazioni dovute all’impianto di un dispositivo all’interno del sistema nervoso, la differenza sostanziale tra le due tipologie di BCI sta nell’accuratezza dei segnali captati: le interfacce invasive elaborano risultati più precisi di quelle meno invasive, non avendo alcun ostacolo (quale potrebbe essere il cranio) all’acquisizione dei dati sull’attività cerebrale.

Il crescente successo e i risultati promettenti avuti grazie a queste tecnologie nel setting clinico hanno favorito lo sviluppo di dispositivi BCI in ambito extra-clinico e commerciale per un pubblico generico – i cosiddetti consumer-grade BCI, BCI per il consumatore. Le interfacce basate sulla EEG, per la loro relativa semplicità e il basso costo di applicazione, hanno permesso la commercializzazione di queste tecnologie e, di conseguenza, la loro disponibilità sul mercato per il supporto di attività quotidiane del largo pubblico. Pioniere in questo settore sono le compagnie statunitensi Emotiv e Neurosky, realizzatrici di dispositivi che sfruttano questa tecnologia per attività quali il gioco virtuale, la TV interattiva e il controllo di sistemi hand-free (controllabili senza l’utilizzo delle mani). Questi dispositivi di ultima generazione non necessitano dell’ausilio degli elettrodi ma adoperano un bio-sensore sfruttando la modalità di trasmissione Bluetooth, diventando così di grande portabilità e disponibili a prezzi sempre più competitivi.

Con l’avvento e la rapida diffusione delle interfacce cervello-computer viene ad aggiungersi una nuova categoria di dispositivi a quelle che sono le tecnologie perturbatrici (disruptive technologies), ovvero quelle innovazioni tecnologiche che non si limitano a migliorare le prestazioni di una serie di invenzioni preesistenti, ma inseriscono nell’ecosistema informatico servizi e prodotti totalmente nuovi, ampliandone gli orizzonti. Conseguenza inevitabile è anche l’esponenziale crescita del flusso informazionale, a cui viene ad aggiungersi una tipologia completamente nuova di dati immagazzinabili e condivisibili.

Queste tecnologie, per quanto innovative possano essere, presentano, però, un problema di fondo intrinseco: sono ideate dall’uomo ed è l’uomo stesso che, facendone un uso errato, potrebbe comprometterle. Se dessimo libero accesso al nostro cervello, il rischio più grande sarebbe la nascita del mind-hacking, l’hackeraggio della mente.

Non sarebbe difficile, per un hacker, trovare il modo di operare sulla mente o sul dispositivo di arrivo dei segnali per estorcere dati personali nel primo caso o indurre la vittima a compiere azioni involontarie nel secondo, come attentati terroristici e crimini di vario tipo.
Viene messa, così, a repentaglio quella che è la sicurezza finanziaria della vittima, per non parlare poi delle implicazioni etico-legali, nel caso in cui un soggetto che ne faccia uso si renda involontariamente colpevole di crimini commessi da un dispositivo compromesso.

Pensate, ora, a quale rischio sarebbe stato esposto Hawking nel caso in cui il tentativo di applicazione della BCI non fosse fallito.
Per questi motivi, l’utilizzo di questa tecnologia non è da prendere alla leggera e si presta a dibattiti etici e morali sui suoi limiti, al fine di preservare uno dei diritti fondamentali dell’uomo: la privacy.

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Rebecca Grosso
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Rebecca Grosso

Un giorno non avrò bisogno di presentazioni. Niente presuntuose ambizioni, solo una lontana speranza per una persona a cui stanno strette le definizioni. Mi piace selezionare le parole giuste ma il Negroni lo prendo sbagliato. Osservo molto, penso troppo e credo in poche cose di estrema importanza. Lascio un pezzo di me in ogni articolo che scrivo.
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