Rapiti da Kim Jong-il: come il dittatore nordcoreano portò il cinema nel suo paese
La straordinaria storia di un celebre regista rapito in compagnia della sua attrice di punta per la scalata al potere di un giovane dittatore: no, non si tratta di finzione cinematografica, ma della storia vera di come Kim Jong-il portò la sua più grande passione – il cinema – a splendere nel suo paese, la Corea del Nord.
Chi ha detto che un dittatore non possa avere una vocazione diversa dall’esercitare il proprio potere? Una passione, un’aspirazione, un sogno, volendo, forzatamente proibito. Pensiamo al giovane Adolf Hitler che vagheggiava una carriera d’artista stroncata brutalmente dai rifiuti da parte dell’Accademia delle Belle Arti di Vienna: la frustrazione per quel talento non riconosciuto, quel tipo di vita che gli fu negata, lo portò, una volta salito al potere, a dettare i canoni di quella che sarà diventata poi la pura arte nazista, contrapposta all’arte “degenerata” che esordiva altrove, da ripudiare e bandire nella maniera più assoluta.
Non molto dissimile è la storia della grande passione di Kim Jong-il, il despota cinefilo che rapì l’attrice e il regista sudcoreani più celebri per portare il cinema della Corea del Nord a un nuovo splendore, che gli avrebbe permesso di essere riconosciuto a livello internazionale. Un fatto gravissimo – e tra poco capiremo meglio perché – che tuttavia quasi non stupisce, data l’attitudine ad essere una fonte inesauribile di aneddoti strani di questo paese e, in particolare, della stirpe dei Kim.
Ma procediamo per ordine.
Prima che Kim Jong-il fosse Kim Jong-il, era un grande patito del cinema. In attesa di prendere in mano le redini del governo, mentre suo padre, Kim Il-sung era al potere, il giovane despota cresceva ammirando personaggi come Rambo e James Bond, arrivando ad accumulare, nella sua cineteca privata, oltre 15.000 titoli a cui affiancava anche circuiti sotterranei di film bootleg, materiale che girava illegalmente date le restrizioni che impedivano ai nordcoreani di affacciarsi al panorama cinematografico internazionale.
Uno dei primi poteri acquisiti dal tiranno in formazione fu, infatti, proprio quello di supervisionare l’industria cinematografica nordcoreana, che rappresentava l’arma che avrebbe utilizzato strategicamente per elevare il suo paese agli occhi delle altre potenze ed allargare il consenso della sua ideologia propagandando i dettami comunisti della DPRK (Repubblica Democratica Popolare di Corea).
Kim Jong-il rimase fortemente deluso dai mezzi che aveva a disposizione per portare a compito questa sua missione personale: nella Corea del Nord i registi non avevano competenze tecniche di alto livello, le pellicole non erano innovative, si limitavano alla meschina propaganda, e soprattutto, gli attori non trasmettevano emozioni. I film nordcoreani erano sterili, freddi, non arrivavano al cuore, non scaldavano gli animi: non avevano, in poche parole, la stessa verve del cinema della Corea del Sud, che invidiava profondamente.
Possiamo immaginarcelo, riusciamo quasi a vederlo quel giovane despota infiammato dalla passione per la cinematografia che, finalmente, sembra trovare la soluzione a quell’insormontabile problema: rapire il miglior regista e la più talentuosa attrice sudcoreana degli ultimi vent’anni per farli lavorare nel suo paese.
Come si suol dire, se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto.
Ma chi erano questi due malcapitati individui?
Shing Sang-ok era il regista che aveva fatto la storia del cinema sudcoreano ma che, passati gli anni Cinquanta e Sessanta, periodo di suo massimo splendore, negli anni Settanta cadde in disgrazia a causa di mancanza di fondi e interferenze governative sulla censura. Choi Eun-hee, sua ex consorte, era invece una delle attrici più ricercate di quegli anni, uno dei volti più noti del settore che nell’ultimo periodo aveva contratto consistenti debiti, con cui il regista aveva anche fondato la casa di produzione Shin Film.
Il caro leader seppe approfittare delle difficoltà economiche dei due per tendergli una trappola: nel 1978 spinse Choi a Hong Kong ingaggiando una finta produttrice, che si presentò con sua figlia piccola per assicurarsi che l’attrice non sospettasse della loro affidabilità, con un’offerta di lavoro per lei. Choi fu portata a passeggiare su una spiaggia dove un gruppo di uomini inviati dal tiranno la stordirono per trasportarla in Nord Corea. La notizia del rapimento doveva servire solo come esca per il suo ex marito, che di fatto si mise a cercarla subito dopo l’annuncio dei notiziari, cadendo a sua volta nelle mani del dittatore finendo per diversi anni imprigionato come detenuto politico, mentre Choi viveva tra le ville di Kim Jong-il leggendo libri di propaganda comunista.
Nel 1983 i due vennero riuniti a un party organizzato dal despota: ormai il piano era perfettamente riuscito nella sua prima parte e il cinema nordcoreano era pronto alla sua nuova vita. Paradossalmente, i due partner – che si risposarono sotto richiesta di Kim Jong-il – vissero in Nord Corea un periodo di grande prolificità, liberi da qualsiasi tipo di influenza poterono, pur sempre mantenendo una linea di stampo propagandistico, esercitare la propria creatività liberi dagli schemi oppressivi del loro paese di origine e questo li portò a realizzare il sogno del despota: portare il cinema nordcoreano ai festival europei.
Eppure, tutta la stima e l’affetto che Kim Jong-il riponeva nei due coniugi, salvatori della settima arte, non bastava a colmare il senso di frustrazione per il loro sequestro, quell’aria di prigionia che li perseguitava notte e giorno. Il loro successo fu un’arma a doppio taglio per il giovane dittatore: in occasione di un festival a cui parteciparono grazie all’ultimo dei sette lungometraggi realizzati durante il rapimento, riuscirono a fuggire chiedendo aiuto all’ambasciata americana.
Rebecca Grosso