Ti adoro… ma non puntarmi la pistola!
Sindrome di Stoccolma: la tendenza di un ostaggio a creare un legame con il suo rapitore.
Stoccolma, 23 agosto 1973. Jan-Erik Olsson, 32 anni, appena evaso dal carcere dov’era stato rinchiuso per furto, tenta una rapina alla sede della Sveriges Kreditbanken, prendendo in ostaggio tre donne e un uomo, tutti dipendenti della filiale. 130 ore, quasi 6 giorni, è il tempo che rimarranno rinchiusi là dentro, circondati dalla polizia. Tanto basta perché gli ostaggi cadano in quella che verrà da quel momento definita come “Sindrome di Stoccolma” dallo psichiatra e criminologo Nils Bejerot.
Ma cos’è successo in quella banca? Perché gli ostaggi finiscono per fidarsi più del rapitore che dei poliziotti che tentano di salvarli? Perché, una volta usciti sani e salvi, i dipendenti della banca abbracciano il rapitore? Perché, in seguito, lo vanno a trovare in carcere? E soprattutto, perché questi strani comportamenti si notano, da quel momento in poi, in altri casi di rapimento e sequestro di persona?
La vicenda si svolge nel caveau, un locale lungo circa 16 metri e largo poco più di 3,5. Un ambiente ristretto, una sorta di corridoio dove è inevitabile che ostaggi e carceriere rimangano a stretto contatto e comincino a sentirsi un po’ tutti “nella stessa barca”. A questo aggiungiamo qualche atto di gentilezza disinteressato da parte del rapitore nei confronti delle sue vittime: una giacca di lana data a un ostaggio infreddolito, parole di conforto a seguito di un brutto sogno di un altro e tanti piccoli gesti che, poco alla volta, lo mostrano agli occhi dei sequestrati, non come un criminale armato, ma come una persona, con pregi e debolezze.
Una reazione emotiva automatica, sorta a livello inconscio nei confronti di colui che li minaccia con una pistola, ma che, in definitiva, non fa loro del male in nessuna di quelle 130 interminabili ore. E allora ecco nascere altri sentimenti negli ostaggi, la compassione, la vicinanza emotiva, la comprensione, che si tramuteranno alla fine addirittura in riconoscenza, nel sentirsi assurdamente in debito verso quell’uomo che, nonostante le pressioni a cui la polizia lo sottopone, li “salva”, facendoli uscire illesi, senza aver torto loro un capello.
In questo rovesciamento di ruoli, la polizia diventa il nemico, non solo per il sequestratore, ma anche per gli ostaggi, che sono all’oscuro delle decisioni che verranno prese fuori dalla stanza in cui sono rinchiusi. Olsson invece è proprio lì con loro che possono vedere e sentire le sue paure, i suoi dubbi, le sue ragioni, le eventuali menzogne o false promesse proferite dal negoziatore di turno.
Vi è mai capitato di immedesimarvi nel cattivo della storia? In fondo, spesso è un personaggio affascinante, misterioso, attraente. A Stoccolma, già nel secondo giorno di sequestro, gli ostaggi iniziano a riporre più fiducia nel rapinatore che nelle forze dell’ordine all’esterno e nel Sistema con la S maiuscola che, in definitiva, non sta facendo niente per loro, a differenza del rapinatore che sembra preoccuparsi per il loro stato di salute. Chiusi in un bunker, in un tempo che pare senza fine, la mente può giocare brutti scherzi.
Olsson, alla fine, viene catturato e in seguito condannato a dieci anni per rapina a mano armata. Ma, anche dopo la liberazione i comportamenti degli ostaggi non sembrano combaciare con il trauma subito: gli scrivono lettere per sincerarsi delle sue condizioni in carcere, lo vanno a trovare. Addirittura, la più giovane tra gli ostaggi contatta il Primo Ministro svedese Olaf Palme per garantire di essere stata trattata bene, in una sorta di richiesta di grazia, ovviamente mai accolta.
La Sindrome di Stoccolma non è ancora oggi inserita ufficialmente in alcun sistema di classificazione psichiatrica. Rientra però nel fenomeno più ampio dei cosiddetti “legami traumatici”, in cui tra due persone ce n’è una che gode di una posizione di potere sull’altra, la quale ne diventa in qualche modo succube, pur essendo vittima di atteggiamenti violenti. Ciò che distingue la Sindrome di Stoccolma è proprio il sentimento positivo provato nei confronti del soggetto aggressore, che può, in alcuni casi, tramutarsi addirittura in amore o totale sottomissione volontaria, instaurando una sorta di complicità e alleanza tra i due.
Luca Rinaldi