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Vita e Morte

«Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit»

«Al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà»

Questa l’iscrizione affissa all’ingresso del Palazzo della Secessione progettato dall’architetto J. Olbrich.

La Secessione di Vienna coinvolse tutti quei movimenti artistici che alla fine del 1800 vollero distaccarsi dallo stile accademico ma, più in generale, fu un vero e proprio movimento culturale che riguardò musicisti quali Mhaler e Schönberg, pittori della fama di Moll, Moser, Roller e, ancora, intellettuali come Freud e Wittegenstein o architetti del calibro di Olbrich, Hoffmann e Wagner.

In quel periodo Vienna fu una delle capitali europee più colte e raffinate ed è in quel clima colmo di fascino che ebbe risalto la figura di Gustav Klimt.

Impossibile non ricordare i famosissimi dipinti Giuditta, L’abbraccio, Danae ma ciò di cui vorrei parlarvi oggi è un dipinto tardo, poco conosciuto eppure, a mio parere, il più significativo e forse anche quello a cui lo stesso Gustav fu più affezionato.

Alludo al Vita e Morte, un olio su tela, di 178×198 cm, dipinto tra il 1908 ed il 1911 ed oggi custodito al Leopold Museum di Vienna.

Questo dipinto parla di me, parla di voi, parla di tutti gli uomini.

Sì, proprio di tutti, perché ci pone di fronte a qualcosa da cui non potremo mai fuggire: la Morte.

Ad un primo sguardo noterete subito che la tela si compone di due parti separate, contrapposte eppure in dialogo. La sezione che immediatamente cattura l’attenzione è quella di destra, rappresentata con colori vivaci e caldi e che vede materializzarsi un gruppo di persone: donne giovani ed un’anziana, una madre e il suo bambino, un uomo. È la vita.

I corpi sono in parte nudi ed in parte vestiti di tessere colorate e tutti sembrano uniti in un’unica aura di forma circolare all’interno della quale dormono in totale ma apparente serenità. Dall’altra parta, quella di sinistra, prende invece forma una figura longilinea, rigida, dominata dal blu ed altri colori freddi. È la Morte.

Quest’ultima posta in netta separazione, allontanata. Potrebbe quasi sembrare che l’artista abbia voluto porla così distante per un senso di timore, come a volerne rifuggire il pensiero.

Pare voglia evitarla, escluderla. Ma osservando meglio, Ella è lì sola, unica, non in gruppo, non ha simili, non ha eguali, è lì maestosa, imponente, a sovrastare. Non ha preferenze, non importa che siano giovani o anziani, uomini o donne, Ella colpirà.

Mentre la Vita è rappresentata come un unico ammasso di corpi incurvati gli uni sugli altri assopiti in un ignaro senso di protezione, quasi aggrovigliati in posizione fetale, come se a proteggerli fosse il grembo materno, accanto, la Morte ha perso le carni umane e a rappresentarla è rimasto solo lo scheletro, la parte dura del corpo che la sostiene in posizione eretta. Ecco che appare il simbolismo fallico che rispedisce il senso di potenza e fertilità. Ebbene è dal fallo che scaturisce la vita, spargitore di seme nell’utero femminile.

È nuovamente la Morte a dominare la Vita per generare vita.

Ancora un rimando ci viene imposto dal bastone che brandisce tra le mani, ancora un’espressione della sua potenza, la distruzione che è immanente alla vita stessa.

L’importanza di questo meraviglioso dipinto deriva quindi dall’incredibile simbolismo che lo caratterizza: Vita e Morte non possono essere dissociate dalle pulsioni che esse stesse generano e dalle quali è naturale essere intimoriti e dalle quali è giusto volersi difendere ma con la consapevolezza di non potercisi sottrarre. Esse sono evocazione di femminile e maschile, due entità archetipe primarie dalle quali nasce l’energia sessuale, la fusione di due metà, l’unità nella dualità. Forza distruttrice e forza generatrice.

Poiché la morte esiste solo se c’è vita, ma qualsiasi vita è sottoposta alla morte.

 

Anna Russo

 

 

La Redazione

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