Davide Iodice e La Luna: “ciò che si perde qui, là si raguna”
I linguaggi posseduti dal teatro per creare bellezza non cessano mai di stupirmi. Il teatro narra attraverso i corpi, la scelta dello spazio, i costumi, il racconto lineare, la performance, la presenza e/o assenza di scenografia; attraverso il silenzio, la dicotomia e il segno. Il regista Davide Iodice, osservatore attento, sensibile all’estetica ma anche alle sottotrame umane, sociologiche e antropologiche, padroneggia i linguaggi teatrali con sentimento e magia, riscrivendo luoghi e tempi. “La Luna”, il suo ultimo spettacolo – frutto di un laboratorio avviato al Napoli Teatro Festival 2018 – mette in scena il dolore, la ferita, lo squarcio.
Palazzo Fondi di Napoli ha ospitato lo spettacolo, mettendo a disposizione il suo spazio per ricreare il microuniverso immaginato e realizzato da Iodice, una piccola bolla di onirismo intoccabile.
Il centro nevralgico, lo scopo ultimo dello spettacolo è quello di comunicare, di “donare” un fetta di umanità al suo pubblico – sempre attentissimo – e di toccarlo, scuotendolo con la bellezza estrema del “brutto”, di ciò che è comunemente definibile come raccapricciante, osboleto, solo. Vediamo attori non-attori farsi animali, bambini, marionette, corpi indefibili e privi di identità, feticci e veicoli di oggetti e sensazioni. I corpi umani sono umani solo nella forma, ma non sono protagonisti delle vicende esposte, sono tramiti versatili spogliati da qualsivoglia individualismo. La prova d’attore di Francesca Romana Bergamo, Alice Conti, Fabio Faliero, Biagio Musella, Annamaria Palomba, Damiano Rossi, Ilaria Scarano e Fabrizio Varriale è visibilmente estenuante, sia fisicamente che emotivamente: la fatica di essere niente e tutto, nessuno ed ognuno, è indicibile. Tuttavia la loro bravura dipana e chiarifica avventimenti e messaggi, rendendoli mezzi di comunicazione perfetti, simboli audaci di quel carico di sofferenza umana di cui Iodice si fa portavoce.
In fondo, nelle parole del regista stesso, la luce bianca, fredda della sua luna serve ad illuminare i reietti, i rifiutati, gli scarti. E gli scarti sono protagonisti reali dello spettacolo, in quanto realmente portatori di ricordi, emblemi e contenitori di sentimenti e memorie. Gli oggetti di scena appartengono a persone coinvolte fisicamente ed umanamente nel progetto, persone che hanno messo a disposizione la loro voce, il loro ciarpame e le loro vite per creare un mondo parallelo: un mondo immaginario in cui coesiste tutto ciò che non si vuole o non si è voluto, di se stessi e degli altri, in cui il dolore è trasfigurato, sognante.
Ogni storia, dalla più piccola alla più grande, contiene un trauma, una ferita dalla quale non siamo sicuri passi la luce, la guarigione non è necessariamente presente in questo universo parallelo, che sovverte l’idea di bello e di brutto, di sano e malsano, di tangibile e ineffabile. La potenza suggestiva di questo “sottosopra” è pungente ma anche languida, affascinante. I molteplici simboli, trasposizioni manifeste di emozioni indefinite, pure, risuonano nello spettatore, che si immedesima senza necessariamente impietosirsi. È importante percepire questo raccapriccio, l’ammasso di umanità che sanguina tutta insieme, unita e ferita, ma non è la compassione o la pietà il fine ultimo di questa opera. È forse un atto di catarsi corale, o solo la suggestione, l’immaginarsi un mondo alternativo di condivisione delle proprie cicatrici, rarefatto e immerso d’irrealtà.
Qualsiasi sia la vostra conclusione, o la vostra illusione, godetevi lo show!
Sveva Di Palma