Gentile signor Troisi, mi chiamo Paolo Sorrentino
1991. Troisi-Sorrentino sono i due cognomi battuti a macchina su un foglio usurato dal tempo. In una teca il documento inedito che miracolosamente è sopravvissuto agli anni e testimonia il timido tentativo di un Sorrentino appena ventunenne di approcciarsi al mondo dello spettacolo rivolgendosi al “comico dei sentimenti”.
La lettera ha fatto la sua prima sorprendente apparizione al Teatro dei Dioscuri a Roma, dove fino al 27 ottobre è possibile visitare gratuitamente la mostra “Troisi poeta Massimo”, un percorso multimediale dall’atmosfera quasi casalinga che riporta in vita il genio del “pulcinella senza maschera”. Un viaggio che ne racconta l’animo sensibile partendo dall’infanzia a San Giorgio a Cremano – quando nella sua affollatissima famiglia già tentava di ritagliarsi spazi di intimità assecondando la sua malinconica vena poetica – fino alla passione per il calcio e alla folgorante ascesa teatrale. Dal Centro Teatro Spazio, un garage allestito a mo’ di teatrino dove Troisi sperimentò il suo talento farsesco, fino all’approdo sul piccolo schermo con La Smorfia, il trio cabarettistico creato assieme a Lello Arena ed Enzo Decaro che ha deliziato un’intera generazione di italiani. Stralci di giornali, poesie infantili, libri impreziositi dall’inchiostro dei suoi appunti, il suo 33 giri del caro Pino Daniele, il David di Donatello: c’è tutto l’alfabeto artistico e privato di questo cantastorie dalla mimica e il pensiero indimenticabili.
Ma nella sequenza cronologica che si snoda tra scatti inediti sui set cinematografici – da Splendor a Non ci resta che piangere – e tributi a questo anarchico gentile capace di farsi beffe della vita, senza smettere però di dubitare di se stesso, sbuca la missiva di un giovane studente, un certo Paolo Sorrentino. Lo scarto tra l’icona di regista visionario, che ha riportato in Italia l’ambita statuetta dopo 15 anni di assenza, e l’incerta penna di questo ventunenne diviso tra la forza delle sue ambizioni e il cinismo dello showbiz è di grande suggestione.
Tra le righe di questa lettera-preghiera si legge la disillusione dei sogni giovanili insieme alla caparbietà di chi, consapevole dei propri mezzi, non si arrende allo smarrimento adolescenziale e si arrischia a vivere delle proprie passioni. Paolo esprime tutto il suo disappunto dopo aver assaggiato la durezza della vita di Cinecittà lavorando per due settimane come assistente volontario alla regia di un film: l’esperienza sul set fu devastante, scandita da una spietata disumanità che rappresentò il crollo di una realtà evidentemente idealizzata da quel timido sognatore appena diciannovenne. Scoraggiato avrebbe ripiegato sull’università, dedicandosi agli studi economici sotto l’ala accogliente di mamma Partenope, seppur tentando ancora collaborazioni fortunose con la Rai. La lettera a Troisi suona come l’ultimo disperato tentativo di chi, non avendo più nulla da perdere, cede a una tentazione prepotente e si aggrappa ancora alla flebile speranza «di poter fare cinema piuttosto che lavorare in qualsiasi altro campo con la mia futura laurea in Economia e Commercio».
L’amaro ritratto dell’esperienza romana suona quasi come un prequel de La grande bellezza, una pagina di diario di un Jep Gambardella acerbo, giornalista in erba ancora non iniziato alla mondanità capitolina ma già toccato da un profondo, costante disagio esistenziale. Anche un po’ alla maniera degli stessi personaggi interpretati da Troisi, spesso troppo sensibili, imbranati, indifesi e disorientati di fronte al vorticoso mutare della realtà. Proprio all’inadeguatezza infatti, Sorrentino attribuisce la sua originaria curiosità per il cinema, raccontando di un’inquietudine interiore che accomuna i pochi eletti ad aver avuto successo in questo mestiere, destinati a non sentirsi mai completamente a proprio agio né a raggiungere un sentimento di pacificazione verso la vita. Lui ha sviluppato una narrativa riconoscibile e originale attaccandosi al suo passato: il leitmotiv della sua filmografia è la trasfigurazione della sua infanzia e adolescenza – stagione della vita in cui i sensi sono del tutto amplificati – rielaborandone la visione sfocata attraverso il filtro di una prontissima inventiva. Da bambino spendeva infatti intere giornate nei giardini di un comprensorio, un universo chiuso fatto di partitelle a calcio e chiacchierate estenuanti, al punto che, quando finivano i fatti, entrava in campo l’immaginazione. Ragion per cui, ai suoi occhi, creare storie per il grande schermo è un rifugio per dilettanti: significa attaccarsi alla pratica elementare di evasione dalla realtà, che non costa fatica alcuna e ha il potere di dilatare l’infanzia.
Ma a questa creatività fanciullesca si unisce anche la fortuna di essersi immerso prematuramente nel mondo adulto – poiché aveva genitori molto grandi – partecipando alle noiose serate di poker o alle festicciole di ultracinquantenni: osservarne le movenze e ascoltarne i discorsi sarebbe stata una palestra mentale in grado di affinare notevolmente la sua capacità di analisi. Anche il soggiorno romano speso a bazzicare tra i locali in voga avrebbe dato i suoi frutti: vedere uomini potenti flirtare squallidamente con ragazzine affamate di notorietà lo suggestionava molto e gli offriva un campionario umano vastissimo su cui lavorare. Da esperto voyeur avrebbe accumulato un archivio visivo così eterogeneo da poter investigare attraverso i suoi film quelle realtà inaccessibili ai più – come la mondanità, il Vaticano, la politica – e raccontare l’ombra della tragedia che si cela dietro il prorompente vitalismo di uomini di potere (vedi Andreotti o Berlusconi).
Ma torniamo alla lettera. Cosa accadeva in quel lontano 1991, quando questo curioso reperto è stato battuto a macchina? Sorrentino avrebbe ricevuto il battesimo del fuoco esattamente 10 anni dopo, nel 2001, firmando la sua primissima esperienza di regia con L’uomo in più – che ha segnato anche l’inizio del sodalizio artistico con l’affezionato protagonista delle sue pellicole, Toni Servillo – mentre Troisi sfornava uno dei suoi sette piccoli capolavori – Pensavo fosse amore…invece era un calesse – prima di raggiungere l’olimpo hollywoodiano con Il postino, film premio Oscar a cui Sorrentino in quella lettera, senza saperlo, chiedeva di lavorare.
Per quanto non sia chiaro se la missiva abbia mai ricevuto risposta, questa mezza paginetta ingiallita intreccia con un fil rouge le storie di due talenti napoletani acclamati fin oltreoceano, unendo deliziosamente passato, presente e futuro attraverso una tenera, muta corrispondenza.
Francesca Eboli