Ti voglio bene, Gianca’
Amo la scrittura in tutti i suoi generi. Essa è una forma d’arte che, soprattutto nei momenti di sconforto, riesce a tirare fuori il meglio di me. “Come ho fatto a scrivere questo?”, mi domando a volte incredulo, mentre fisso i caratteri scuri che spiccano su quella pagina che un attimo prima era un anonimo foglio bianco.
Questo amore è nato a 16 anni, quando ho iniziato a scrivere le mie prime canzoni, e da allora non ho più smesso. Ho continuato a sperimentare e a mettermi alla prova con generi diversi. Poi, un po’ di tempo fa, mi sono accostato al mondo del giornalismo ed è avvenuto l’incontro, purtroppo solo platonico, con quello che considero uno dei miei mentori: Giancarlo Siani.
Quando guardo la foto di Siani vedo il sorriso pulito di un ragazzo di 26 anni che ha cercato, con la forza delle parole e dell’informazione, di abbattere i tasti più dolenti della storia camorristica napoletana degli anni ’80. Un piccolo uomo onesto che voleva abbattere il muro del silenzio, distinguendosi in un mondo di omertosi giganti, schiavi della paura e della menzogna.
Potrei omaggiare la memoria di quest’uomo con la storia della sua vita e di ciò che ha combattuto, ma sarebbe scontato e riduttivo. Preferisco ricordarlo per il messaggio implicito che ha lasciato a noi che facciamo il suo stesso lavoro: avere il coraggio di raccontare la verità. E Siani lo ha fatto nel migliore dei modi: è stato portavoce di migliaia di persone che erano a conoscenza della realtà dei fatti immolandosi, senza neanche saperlo, per la sua terra.
Lui, un giornalista alle prime armi con un contratto trimestrale per “Il Mattino” di Napoli presso la sede distaccata di Torre Annunziata, dava fastidio. Molto fastidio. I clan non riuscivano più a sopportare che qualcuno rivelasse i rapporti tra camorra e politica, e così decisero che era arrivato il momento di farlo tacere.
Non sopportavano l’idea che un novellino li paragonasse a degli infami e decisero, non solo di assassinare il giornalista la sera del 23 settembre 1985, ma anche di mettere in circolo storie fasulle sul conto, in modo da infangare la sua persona e allontanare dalla camorra ogni tipo di sospetto sul suo omicidio.
Secondo una delle tesi più infamanti, Siani era un assiduo frequentatore di bordelli; in uno di questi luoghi si sarebbe imbattuto in qualche personaggio politico di spicco, il quale, temendo che il giornalista potesse rovinare la sua reputazione, lo avrebbe fatto uccidere.
Una storia insensata e crudele che racconta di un personaggio totalmente diverso dall’uomo dalla grande statura morale che Siani è stato. Sapete perché dava fastidio? Perché riusciva a muoversi negli ambienti più ostici grazie ad informatori, creando una mappa delle varie zone di Napoli in base al clan presente in quel preciso territorio.
Intuì che i Nuvoletta consegnarono alle forze dell’ordine il rampollo del clan Gionta solo per ottenere una tregua, facendoli passare per “infami”: l’agnello sacrificale per la tanto agognata pace.
L’articolo che decretò la morte di Siani uscì il 10 giugno ed esponeva alcune ipotesi sugli scenari camorristici campani. Fu ucciso a pochi passi da casa sua la sera del 23 settembre 1985 nella sua Citroën Méhari, colpito dieci volte alla testa; proprio in quei giorni stava ultimando un articolo sul rapporto tra camorra e politica, in particolare sugli appalti per la ricostruzione dell’Irpina post-terremoto.
Ma la domanda principale non è “Chi è Giancarlo Siani?”, ma “Cos’è diventato per la nuova generazione?”. È diventato il simbolo del coraggio e della verità, rappresenta il sogno di un’onesta ribellione che pochi riescono a portare avanti.
Ti voglio ringraziare, Gianca’, per la passione che ci hai trasmesso, per la tua tenacia ed il non avere paura. Con la paura sopprimiamo il coraggio e con il silenzio sotterriamo la nostra dignità ma tu, annientando questi due fattori disfunzionali, vivi in eterno, in un modo o nell’altro.
Ti voglio ringraziare, ancora una volta, perché ti sento più vicino, ti sento come un coetaneo ed oggi, 23 settembre 2019, ti voglio ricordare così.
È superfluo dirlo, ma lo scrivo lo stesso: grazie.
Antonio Vollono