Zelig: il film più finto del mondo
Quella dell’identità è una delle questioni più affrontate nella storia del pensiero. “Chi siamo?” è la domanda che filosofi, antropologi e sociologi si pongono dalla notte dei tempi, anche da prima che questi “mestieri” nascessero ufficialmente. Ma cosa succede quando la questione identitaria incontra un omino con gli occhiali e il nasone di New York che di mestiere fa il regista? Innanzitutto, ne viene fuori il mio ennesimo articolo su di lui e poi, quasi ugualmente importante, nasce Zelig, capostipite dei film con un’identità labile e pellicola più finta di sempre.
È difficile definire in che anno siamo. Tecnicamente siamo tra gli anni Settanta e Ottanta, ma si parla degli anni Venti e Trenta, però poi, a pensarci, probabilmente ci troviamo in una situazione atemporale all’interno della mente di Woody Allen. Questo è Zelig, film del 1983 del cineasta newyorkese che possiamo tranquillamente definire come il film più finto del mondo.
Perché sia stato partorito un film del genere è, più o meno, presto detto: parodia di un documentario sugli anni Venti e Trenta. Che sia l’ennesimo esercizio psicanalitico di Woody Allen pare scontato, tuttavia questo film — come altri del regista — ha ispirato, volente o nolente, registi e film successivi ed è stato individuato, negli studi sulla questione dell’identità nel cinema, un po’ come il capostipite e precursore del postmodernismo, in cui la dominante ontologica prende il sopravvento su quella epistemologica e inizia a porre allo spettatore domande che sempre più difficilmente riesce a comprendere e che lo portano a un approccio completamente nuovo rispetto ai tempi e ai modi della fruizione del film.
Insomma, se da un lato Zelig è parodia del documentario anni Venti, dall’altro vi si può ancora una volta scorgere l’amore e l’invidia di Woody per quegli anni (clicca qui per scoprire il rapporto tra Woody Allen e gli anni Venti). A complicare il tutto è il modo in cui viene presentato il film. Senza che lo spettatore venga avvisato, ci troviamo in un documentario su uno strano personaggio diventato famoso tra gli anni Venti e Trenta per la strana capacità di sapersi trasformare letteralmente in ogni persona con cui si trova ad avere a che fare. La ricerca delle cause di questa facoltà è ciò che ha fatto nascere il documentario, che alle immagini fintamente girate in quegli anni, affianca interviste realizzate negli anni coevi a quelli in cui idealmente è stato realizzato. L’illusione non è data solo da trucchi cinematografici: diverse personalità della cultura statunitense — da Susan Sontag a Bruno Bettelheim — si sono prestate a interpretare se stesse nel rilasciare interviste in cui parlano di Leonard Zelig, come sefosse un personaggio realmente esistito e avesse influenzato le vite di molti.
Zelig è un film decisamente atipico, un “non film” che fu in qualche modo rivoluzionario nel momento della sua uscita. Il genio di Woody Allen ha saputo creare un qualcosa che lo spettatore è impreparato ad affrontare, specialmente all’inizio degli anni Ottanta. Il film, difatti, apre alla questione dell’identità su un doppio binario: da un lato sui contenuti del film, che parla di un uomo che finge di essere ciò che non è, dall’altro sul modo in cui è presentato, un film fasullo che finge di essere ciò che non è.
Federico Mangione