Joe O’Donnell: la fotografia che parla
Era il 6 agosto del 1945 quando, alle prime ore del mattino, il governo degli Stati Uniti d’America sganciò su Hiroshima la prima bomba atomica utilizzata con fine bellico. Questa era la soluzione finale per intimorire il popolo giapponese che ancora non si arrendeva alla grande potenza a stelle e strisce. Nel raggio di 2 km ogni cosa fu rasa completamente al suolo causando 80.000 morti e altrettanti feriti. Il 9 agosto dello stesso anno a soli pochi giorni di distanza, gli americani colpirono con le stesse modalità anche Nagasaki causando vittime su vittime. Dopo lo sgancio delle bombe, considerando anche le morti avvenute successivamente a causa delle radiazioni e delle problematiche sociali ed ambientali sorte nel corso degli anni, le vittime stimate furono circa 210.000, quasi tutti civili. In seguito a questi avvenimenti, il 15 agosto del 1945 vide definitivamente la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Sono passati 73 anni da quel giorno e come tanti avvenimenti drammatici poche parole, se non nessuna, riescono ad esprimere a pieno lo strazio che tanta disumanità causa. Ma dove le parole si fermano, arriva la foto di Joe O’Donnell che, con uno degli scatti più famosi della sua carriera, ha saputo raccontare il dolore, lo sconforto e il panico di quei giorni difficili.
All’epoca aveva 23 anni ed era un semplice sergente dei Marines con la passione per la fotografia quando la United States Information Agency, per la quale lavorava, lo spedì in Giappone per documentare gli effetti della Seconda Guerra Mondiale. A soli 23 anni O’Donnell non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe visto, di cosa non avrebbe mai più dimenticato.
Furono sette mesi intensi e difficili che il giovane giornalista e fotografo americano documentò come meglio poté. Furono mesi passati a passeggiare tra le macerie, in mezzo alla devastazione, ai morti, alle cremazioni, ai feriti, alle lacrime, a stringere la mano alla morte e a prendere confidenza con una delle più grandi paure del genere umano. Grazie a quello stretto contatto con il più vero volto della disperazione umana, quello all’epoca ragazzino, riuscì a realizzare alcuni degli scatti più belli e drammatici passati poi alla storia. Quegli stessi scatti che il fotoreporter decise di rendere pubblici solo una ventina d’anni dopo.
Dieci anni, sguardo fisso e fiero, stracci al posto dei vestiti, posizione eretta e ferma. Questa la posizione del bambino che è possibile vedere nella foto di O’Donnell. Ma lui non è un bambino come gli altri. No. Sulle spalle porta qualcosa, o meglio qualcuno che nella foto appare con al testa inclinata e il volto sereno di chi sta dormendo ma non per svegliarsi a breve. Una foto forte che lascia poco spazio alle parole. Una foto che racconta il dolore di un bambino che aspetta il suo turno per far cremare il fratellino deceduto nei bombardamenti. Una foto in cui traspare l’atrocità della guerra sintetizzata negli occhi spenti di uno dei tanti orfani di quei giorni.
Nessuna emozione traspare nel volto di quel bambino che, inconsapevolmente, è diventato il simbolo di un intero popolo distrutto e ferito dalla guerra.
Ed esattamente quale espressione, quali parole potrebbero mai descrivere la polvere delle macerie, l’odore dei cadaveri commisto ad esplosivo, il rosso del sangue, il retrogusto dei cadaveri cremati, la pelle sporca, il vuoto negli occhi? Come si descrive tutto questo? Quali sono le parole esatte che dovrebbero accompagnare questa foto e quel periodo storico? Credo nessuna. Credo che nessuna bella parola saprà mai piangere le vittime innocenti di una strage ai limiti dell’inimmaginabile. Nessun finto moralismo potrà mai chiedere scusa abbastanza. E allora non parliamo, lasciamo parlare la foto di Joe O’Donnell che ha saputo documentare tutto alla perfezione.
Ma il contatto con il dolore ha un prezzo da pagare e Joseph Roger “Joe” O’Donnell lo porta negli occhi, dietro una tristezza visibile della quale non parlava mai volentieri, convinto che la sua sofferenza fosse molto meno profonda di quella del popolo giapponese. Fu un’esperienza che lo tormentò per tutta la vita ma che ancora oggi ci fa riflettere e pensare.
Quel reportage, che ha colpito anche papa Francesco che di fatto ha scelto proprio questa foto per sintetizzare ciò che per lui è il “frutto della guerra”, sono l’apoteosi del male, della morte e del dolore umano che ancora oggi, vestito da guerra e da armi, sconvolge e colpisce il mondo anche se facciamo finta di niente.
Adele De Prisco