Andrea Camilleri: ironia e curiosità
Andrea Camilleri, scrittore, insegnante, drammaturgo e sceneggiatore italiano, si è spento in una ventilata giornata di luglio, dopo un lungo periodo di alti e bassi, incertezze e malori. Aveva 93 anni.
Quante volte leggiamo, in necrologi ed articoli commemorativi, l’espressione “si è spento”?
È una formula, un’espressione ormai acquisita dalla nostra retorica del pensiero e del linguaggio. Se ci riflettiamo su, tuttavia, possiamo renderci conto di quanto essa sia sterile e limitante. Possiamo consapevolmente dire che Andrea Camilleri si sia “spento”? Che abbia smesso di esistere e brillare, solo perché il suo corpo ha smesso di funzionare?
È un po’ di tempo che desidero scrivere qualcosa su Andrea Camilleri, scrittore di storica rilevanza da me scoperto molto tardi. Un anno fa, per essere precisi. Era uno di quegli autori ai quali non avevo dato grande spazio, considerandolo principalmente per i suoi interventi televisivi, per le sue opinioni sui governi e la politica contemporanea. Certo, conoscevo il commissario Montalbano, la sua fama mondiale. Ma era una conoscenza superficiale, priva di passione. Poi, in un periodo di crisi sentimentale e professionale, mi resi conto che avevo voglia di leggere, leggere qualcosa di nuovo. Avevo uopo di freschezza, di un racconto divertente, che mi cullasse senza però farmi appisolare. Mio padre, sensibile alle mie richieste, mi consigliò Camilleri. Così, è iniziata la nostra amicizia letteraria. Un’amicizia imperitura, soggetta a scossoni ma solida.
Io credo – ho sempre creduto – che quando qualcuno di grande, di splendente, muoia, bisogna essere tristi, perdere del tempo, su quella morte.
La morte di un artista è l’assiomatica morte di tutto ciò che potrebbe creare, qualcosa che in potenza avrebbe potuto essere ed invece mai sarà. Il potenziale svanito è una perdita grave, incolmabile. Su quel condizionale passato c’è necessità di piangere, di parlare, di rammaricarsi. È importante per restare umani, ricordare a noi stessi cosa è bello e giusto.
Ho sofferto, per la morte del mio amico di penna Andrea, quel signore dal cuore giovane, dal volto tranquillo.
Tuttavia, in un momento successivo al lutto – umano ed artistico – invece di rimpiangere la morte, diamo spazio alla vera impresa, alla parte difficile: commemorare la vita.
Rendere omaggio ad una straordinaria creatura che ci ha donato la sua presenza, la sua fantasia; qualcuno che si è messo al nostro servizio, con l’intento di intrattenerci ed emozionarci. È l’unico gesto d’amore utile possibile. Noi siamo piccoli, dobbiamo stare nei nostri limiti talvolta, accettarli con pace. Non possiamo far altro, rendere immortale nessuno, fermare il tempo. Possiamo ricordare, però, gioire di ciò che abbiamo avuto.
Andrea Camilleri era un uomo così, uno che amava molte cose, dalle più complesse alle più semplici. Un intellettuale curioso, poliedrico, impegnato in mille attività. Ci ha conquistati tutti con i suoi libri gialli, diventati poi una famosa serie tv, sul commissario Montalbano: un personaggio dalle sfumature ironiche, contraddittorio in modo paradossale e realistico. Ci viene dipinto un uomo pieno di falle, di cinismi e ingenuità, sciocco e scaltro.
In particolar modo, è interessante analizzare il prequel della serie, La prima indagine di Montalbano. È stato il primo libro che ho letto, tra i vari dedicati al commissario. Mi piaceva l’idea di cominciare dall’inizio, dalla gioventù del protagonista, individuandone le origini. Il linguaggio di Camilleri, un siciliano commistionato all’italiano, è inusuale, goliardico e geniale. L’umorismo prende pieghe inaspettate, inusitate, tipicamente sicule. Divertimento e pensiero, filosofia e intreccio, storia e dialogo, tutto si unisce magnificamente, creando una lettura accessibile ed accattivante, ma al contempo di qualità.
È più difficile far ridere che far piangere, si dice spesso in teatro, esaltando le virtù della commedia. La trovo un’affermazione incredibilmente veritiera, non solo per il teatro. Camilleri ci mostra perché e come si fa. Gli piaceva ridere, scherzare. “La felicità è nelle cose ridicole” diceva, con quel tono bonario, allegro, di chi non si prende troppo sul serio. Apprezzare la piccolezza serve ad innalzarsi alla grandezza, ci ricorda. E serve, ancora, un ingrediente fondamentale: la curiosità. Di essa, Camilleri ne aveva a bizzeffe, avrebbe avuto da offrirne ad altre mille, duemila, diecimila persone. E così, forse, è riuscito a fare, cimentandosi in ogni arte possibile, dalla televisione all’insegnamento. Ogni mezzo di comunicazione è passato tra le mani e la mente solerte di Andrea Camilleri, uno sperimentatore sempre in comunicazione con il suo pubblico, scevro da intellettualismi pomposi e sofismi sterili. Ad alcuni intellettuali vivere piace, vivere bene, godendo delle bellezze della vita. Il tormento artistico non deve per forza sfociare in depressione, in autoreferenzialità, in incomunicabili astrattismi. Amare il mondo e l’essere umano attraverso l’arte si può, si deve. Camilleri era generoso con il proprio essere artista, comunista. Godeva nel donare parti di se stesso ai lettori, si divideva, moltiplicava, perché non aveva timore di rigenerarsi. Quanta energia, quanta dedizione! Anche negli ultimi anni, quando la vecchiaia del corpo gli ha levato il suo senso preferito – la vista – Andrea non ha smesso di avere voglia, di provare. Era incuriosito ancora dalle prospettive dell’esistenza, anche se esse erano ormai avvolte nel buio. La sua vista interiore si spalancava su un’immensa, inquantificabile vastità: l’eterno. Le menti aperte sono macchine meravigliose, immortali.
Possiamo dunque prenderci seriamente, quando diciamo o scriviamo che Andrea Camilleri si è “spento”? Può un essere così davvero spegnersi?
Vi invito a leggere un saggio, un libro, ascoltare un’intervista di quest’uomo e successivamente provare a rispondere.
Buona ricerca!
Sveva Di Palma