Avevo solo vent’anni – un pensiero sulla Grande Guerra
La prima guerra mondiale è stato uno degli avvenimenti più sanguinari e crudi ma, allo stesso tempo, innovativi sia in campo tecnologico e sociale del ‘900.
Ho sempre pensato che il patriottismo non possa essere collegato con questo avvenimento che si poteva benissimo evitare, ma sappiamo bene che la guerra non è altro che una continuazione del dibattito politico.
E’ inutile far elogi; i nostri coetanei hanno fermato il corso della loro vita su quei monti, lontani dalle famiglie combattendo per un qualcosa di inculcato.
Ho sempre avuto la passione per questo argomento definendo il ’15-’18 come l’ultima guerra romantica, ma è facile definirla così se te la propinano come un qualcosa di necessario ed utile per il continuo dell’italica società, un qualcosa che non si poteva evitare.
Tutto ciò dipese dall’opinione degli interventisti che, seppur in minima parte, ebbero la meglio sull’opinione pubblica.
A parer mio, un gruppo di codardi che mandò sul fronte un’intera generazione spaccandola a metà: chi tornò a casa riportando traumi mentali e fisici e chi rimase sulle Alpi senza poter vedere per l’ultima volta il sorriso di chi amava.
E’ facile recarsi in qualsiasi sacrario militare e commemorare, ogni 4 novembre, quegli eterni ventenni chiusi in un casse adornate da dolci parole definendoli eroi quando forse non volevano essere definiti tali.
Ma, paradossalmente, ebbe un grande impatto tecnologico e sociale per l’evoluzione dell’odierna società.
Il genio umano è dotato di razionalità ed intelligenza, ma queste ultime due vengono applicate per autodistruggersi creando disagi al proprio fratello: più c’è un progresso e più c’è un regresso.
L’esempio più lampante è l’aeroplano che, inventato solo 14 anni prima, si vide protagonista di bombardamenti e distruzione in campo aereo.
In campo terreste nacque il carro armato che fu utilizzato per la prima volta nelle celeberrima Battaglia delle Somme e l’utilizzo dell’iprite il 12 luglio 1917 da parte dell’esercito tedesco durante la Battaglia di Ypres, sul fronte belga.
Ovviamente, sono gli esempi più lampanti però sviluppati in un tempo così breve che hanno innovato l’uso delle armi per le guerre future portando, pian piano, alla costruzione di armi di distruzione di massa.
L’unica nota positiva di questa inutile strage (così definita dalla bon’anima del pontefice Benedetto XV) fu il cambiamento sociale che investì le donne.
Alle donne dell’alta società spettava unicamente il ruolo di madre, della piccola borghesia spettava il ruolo di insegnante e della classe più povera sia come governante che come lavoratrice.
Con la partenza della maggior parte degli uomini verso il fronte, le donne si trovarono di punto in bianco a dover coprire quelle cariche che erano all’epoca impensabili per il sesso femminile: operaia, crocerossina, poliziotta, telegrafista, contadina ed in più madri per i loro bambini.
Questo piccolo passo per l’indipendenza cominciò a portare più seguaci delle neonate suffragette che chiedevano pari diritti tra uomini e donne, sia in campo economico e sopratutto sociale, dato che le donne erano escluse dal mondo della politica (ricordiamoci che le nostre ave votarono per la prima volta solo nel 1946).
Tra queste donne, sopratutto di rango borghese, troviamo neutraliste che criticarono aspramente l’entrata in guerra da parte di governi.
Ma quanti ne morirono, non tanto per mano nemica, ma per mano amica?
Tra questi, ricordiamo Alessandro Ruffini, fatto fucilare dai carabinieri sotto ordine del generale Graziani per non averlo salutato senza levarsi il sigaro di bocca.
Graziani si sentì sfidato ed affermò che poteva far di tutto con i suoi soldati condannando il povero 23enne ad un’inutile morte, segno di abuso del potere e di poca empatia da parte di chi dovrebbe coordinare uomini.
La terribile pratica della decimazione, abolita poi dal generale Diaz, consisteva nel giustiziare dieci sorteggiati per dare una lezione esemplare.
Uno dei casi più celebri fu la condanna a morte di dodici soldati della Bgt. Catanzaro che si ribellarono verso i loro superiori non ubbidendo all’ordine di marciare verso il Monte Ermada dopo una lunga ed estenuante battaglia.
La guerra ci fa capire che siamo umani con sentimenti, con pietà verso il prossimo anche se ci punta un fucile addosso.
Questa pietà portò alla Tregua di Natale del 1914 quando soldati di diversi eserciti si incontrarono nella famosa Terra di Nessuno e mangiarono, giocarono e si scambiarono doni come se nulla fosse successo, come se tutti fossero fratelli.
Il senso di pietà portò gli italiani ad usare le luci di notte non tanto per stanare i nemici, ma per aiutare questi ultimi a recuperare commilitoni feriti o andati, come se la pietà umana avesse il sopravvento sull’odio.
Non erano loro i cattivi, ma i governi che vollero la loro vita in cambio di un pezzo di terra da annettere alla propria patria.
Un pezzo di terra di cui avremmo potuto anche far a meno pur di risparmiare giovani vite.
Potrei continuare all’infinito a descrivere questi tre lunghi anni e non voglio ricordare solo il 4 novembre – data della vittoria italiana – ma anche l’11, ovvero la fine di tutte le battaglie con l’Armistizio di Compiègne.
Ben sei firme della durata di un attimo portavano sulla coscienza 37.494.186 vite umane.
La guerra non è romantica e non è un gioco.
Visitate i sacrari militari e notate quanti vostri coetanei sono presenti lì, bloccati nel fiore degli anni per un obbligo verso uno stato che li avrebbe puniti nel caso non avessero adempiuto al loro “dovere”.
Il compito dello Stato non è quello di commemorali come eroi, ma di provar vergogna per averli resi partecipi per uno dei più grandi stermini di massa dell’umanità dando fine non solo alla loro vita, ma anche ai loro sogni che non si sono mai avverati.
Chiedetegli eternamente scusa.
Antonio Vollono