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Martin Eden: a spasso per il ‘900 napoletano con Marinelli

Pietro Marcello fa approdare un’icona della letteratura d’oltreoceano in una Napoli disgraziata e vibrante di passione politica, rimaneggiando il calderone mnemonico del “secolo breve” in una pellicola fluida e trasognata.

Scegli un’opera intramontabile come il Martin Eden di London, stravolgi e dilatane il contesto storico, le ambientazioni, l’impianto stilistico e la lingua, scrittura come protagonista un volto indimenticabile e invadente come quello di Marinelli e il prodotto finale di questa rischiosa miscela alchemica non può che stupire.

L’autore di questo poetico artificio visivo è Pietro Marcello, documentarista casertano che in questo lungometraggio d’esordio buca lo schermo attraverso gli occhi indagatori di un Martin tormentato e cocciuto, uno straccione napoletano troppo affamato di vita e di lotta per arrendersi al destino precario di marinaio. L’incontro folgorante con la bellezza aristocratica di Elena (Jessica Cressy) innesca una dialettica di riscatto sociale che va di pari passo con la fine arte della seduzione attraverso un appassionato carteggio: Martin si lancia in un’ossessionante sperimentazione sul potere della parola, della idee, delle rivoluzioni interiori, fa della poesia il balsamo delle sue inquiete aspirazioni e della saggistica di Marx e Spencer il suo pane quotidiano. Il fine ultimo? Rendere lo studio da autodidatta il mezzo per sdoganare il borghesismo stantio e la sua lingua, sempre in cerca di nuovi termini, formule ed espedienti retorici, l’ordigno esplosivo con cui fare breccia nel cuore della sua bella.

Spoiler: il suo radicalismo politico – orientato verso socialismo critico e individualismo anarchico – gli mostrerà le crepe che dividono il suo mondo schietto e squattrinato dal circuito affettato e odiosamente conservatore cui Elena appartiene. E quei suoi scritti così tristi e ideologicamente inquadrati tanto snobbati da quotidiani e case editrici prima, si riveleranno poi il lasciapassare per una fama ipocrita e maledetta che lo consumerà. Proprio quando battezzato dalla critica, Martin tocca infatti il fondo sudicio della frustrazione, più marcio dei bassifondi che bazzicava da giovane, quando ancora intellettualmente acerbo ma placido nella sua esistenza senza pretese.

Ma cos’è che ha fatto approdare al Lido quest’esperimento di regia, con cui Marinelli si è guadagnato anche la Coppa Volpi come miglior interprete maschile in gara?

Senza dubbio la prima qualità di questa trasposizione cinematografica è la rischiosa, ma ben riuscita, sovrapposizione di codici, registri e materiale d’archivio, mescolati in un pastiche che sorprende e disorienta. Pietro Marcello conferma il suo approccio “archeologico”, che stratifica la visione e indaga sulla storia delle immagini – documento, imbastendo un girato di 129 minuti in cui lo spettatore si interroga – inutilmente – sull’epoca in cui è ambientata la storia. Intermezzi di sommosse proletarie di inizio ‘900, reminiscenze del secondo conflitto mondiale, tv a colori e acconciature anni ’80. E ancora: imbarcazioni cariche di emigrati italiani diretti verso l’America, spezzoni in b&w di bambini danzanti e gioiosi, scugnizzi a piedi nudi tra vicoli, botteghe e panni “spasi” e volti che ci scrutano dal passato in modo spregiudicato e assorto. Marcello ha messo in piedi uno scheletro intricatissimo del secolo scorso, ci ha portato per mano nello spirito del tempo passato lasciandoci però la libertà di scegliere, coglierne i riferimenti storici e tesserne intime interpretazioni.

Dalla San Francisco degli anni ’10 di Jack London a una Napoli multiforme e fluttuante che sbeffeggia bussole e orologi, prende vita un racconto meta-temporale su quanto di irrisolto ci sia nell’animo umano, tra odissee politiche e naufragi sentimentali, sullo sfondo di una città bagnata dal mare che come un grembo materno accoglie l’uomo e le sue paturnie.

 

Francesca Eboli

La Redazione

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