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Storia di un travisato amore: “Tre camere a Manhattan” di Georges Simenon

Quando metto nero su bianco le mie impressioni di lettura generalmente lascio trascorrere qualche giorno dalla conclusione del libro in questione. Permettere alle parole e alle sensazioni di decantare è il modo a me più congeniale per la stesura di un testo strutturato e coerente, ma non per questo meno onesto.

Eppure questa volta sento che se iniziassi a scrivere di Tre camere a Manhattan di Simenon qualche giorno dopo averlo concluso potrei darne un’opinione poco sincera, probabilmente edulcorata dalla paura di scrivere qualcosa di impopolare.

Non posso infatti ignorare di provare, a fine lettura, due stati d’animo ben distinti e inequivocabili, delusione e fastidio, non fuggevolmente legati a un epilogo lontano dal mio gusto, ma sinceramente sorti in me a poche pagine dall’inizio e cresciuti e corroborati col procedere della narrazione.

Per provare a spiegare il perché di questo mio sentire è forse necessario fare un cenno alla trama. Combe e Kay si incontrano casualmente a notte fonda in un anonimo bar di Washington Square, e dopo aver scambiato qualche parola iniziano a vagare per le strade newyorkesi per poi finire al Lotus Hotel.

Al risveglio, Combe avverte nascere in sé un ingiustificato e crescente fastidio nei confronti della donna, generato dalla civetteria di lei e dai riferimenti ai precedenti amanti. Tutto ciò cui Kay accenna è di essere stata sposata – anche Combe ha un matrimonio fallito alle spalle – e di aver avuto un flirt con un amico della sua ex coinquilina, ma Combe comincia a vedere dappertutto flirt e possibili conquiste passate, presenti e future.

Ai suoi malumori, la donna reagisce con un sempre crescente spaesamento infantile, dipendenza e sottomissione affettiva, catalizzando e cementificando una bizzarra dinamica di odio-amore che sfocerà in un improbabile happy ending.

Ora torniamo alla delusione e al fastidio e procediamo per ordine. La delusione che ho provato alla fine del testo è dovuta al confronto tra la quarta di copertina e il romanzo stesso, che ha decisamente sfasato il mio orizzonte di attesa.

Non tenendo conto di quello che ho immaginato di sana pianta com’è diritto di ogni lettore, non posso fare a meno di fare spallucce quando leggo che Tre camere a Manhattan è “un entusiasmante romanzo di iniziazione all’amore, anzi: d’iniziazione allo scandalo felice della vita”.

Davvero, non saprei da dove iniziare. Ogni parola di questa affermazione mi sembra esagerata. Sono in grado di essere felici, i due individui del romanzo? Non scelgo a caso la parola “individui”. Kay e Combe sono profondamente soli, forse irrimediabilmente, e non basta unirsi maldestramente a un altro pescato a caso per arginare questa solitudine, soprattutto quando lei ammette candidamente che la sera che ha incontrato lui sarebbe andata con chiunque e quando lui è talmente solo e annoiato da prendere la vita amorosa del suo dirimpettaio come passatempo enigmistico.

Il loro rapporto non presenta nessun connotato della felicità, e se tale si possa definire quella provata dai due nel finale, francamente non credo sopravvivrebbe troppo a lungo alla chiusura della parentesi narrativa.

E, ancora, della quarta di copertina mi straluna l’uso della parola “amore”. Qui arriviamo al fastidio: sono stanca morta di sentir chiamare amore quello che invece è un morboso atto masturbatorio dell’es, compiuto da un soggetto che ne usi un altro nel tentativo di soddisfare le proprie velleità, punendo quest’ultimo quando ciò non riesca a verificarsi.

Il fastidio che prova Combe nell’ascoltare i riferimenti di Kay alle sue storie passate non trova certo giustificazione in un amore che non ha materialmente avuto il tempo di formarsi, ma in un insopportabile attacco alla sua vanità, tanto più meschina quanto priva della capacità di ammettere lucidamente che anche per lui sarebbe andata bene una donna qualunque, quella sera come le altre.

Quel camminare al lato di Kay la prima notte, quell’aderire dei loro corpi che gli era sembrato così naturale… lo sarebbe stato altrettanto con chiunque altro. Anche con June, la donna con cui del tutto insensatamente Combe tradisce Kay poche ore prima che lei rientri da una partenza improvvisa e molto breve.

Se mi si parla di “romanzo d’amore” e di “scandalo felice della vita”, mi aspetto di trovarmi di fronte a due persone che abbiano positivamente sfruttato la loro solitudine e che siano pronte a riconoscersi e a lasciarsi andare a un placido e duraturo piacere. Tre camere a Manhattan è per me non un romanzo d’amore, bensì un ben riuscito ma non troppo infrequente esempio di psicopatologia amorosa, che non fa altro che andare a nutrire una folta frangia di antichi ma sempre attuali bias sull’argomento.

Queste, brevemente, le mie umili impressioni sul romanzo di Simenon. Spero di non essere sembrata impietosa, non avrei motivo per esserlo. Inoltre so molto bene come funzionano queste cose: quello che non ci piace spesso ha la caparbietà e la pazienza di trasformarsi in ciò che amiamo. Tra qualche anno questo libro potrebbe essere il mio preferito.

Francesca Grasso

La Redazione

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