Una notte al museo: la Venere Callipigia, inno alla sensualità femminile
Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli rappresenta un insieme di gruppi scultorei talmente definiti da sembrare veri. Lì, dove il marmo diviene carne e non si riesce più a distinguere la realtà dalla finzione, spiccano opere dal fascino indescrivibile. Una di queste è la meravigliosa Venere Callipigia.
Ritrovata acefala negli scavi della domus aurea e acquistata dalla famiglia Farnese nel ‘500, la statua rappresenta la dea dell’amore e della bellezza in tutto il suo splendore, posta di spalle e sorpresa nell’atto di sollevarsi il peplo e guardare indietro, verso le sue “belle natiche” (da qui callipigia, dal greco kalόs,“bello”, e pygḗ, “natica”), in un gesto che allude all’erotismo dei rituali religiosi.
Tale azione, detta anasyrma, conferisce alla nostra protagonista una fortissima carica sensuale, quasi come se, con finta innocenza e giocosità, invitasse chi la guarda ad ammirare le sue grazie, muovendosi come se non fosse osservata da nessuno.
La naturalezza con la quale la statua compie il gesto esibizionistico contribuisce a rendere i movimenti della dea armoniosi e realistici.
Il drappeggio del lungo peplo che sfiora il suolo è talmente definito da far risultare il marmo leggero come un vero e proprio velo.
La fitta acconciatura di riccioli che corona l’ovale perfetto del viso crea dei deliziosi chiaroscuri fra i capelli, dando maggior volume all’intera opera.
Infine, i glutei canonicamente perfetti che vengono mostrati paradossalmente con tanta eleganza enfatizzano il lato più misterioso, erotico e seducente della dea, che non è solo creatura divina, ma anche donna, e come tale si pone fiera agli occhi di tutti.
In una moderna e personalissima interpretazione, la Venere Callipigia rappresenta il desiderio femminile di mostrarsi senza la paura di essere giudicata per le sue imperfezioni, riuscendo a farsene vanto, rendendole punti di forza e sfidando con intelligenza ed ironia chiunque osi affermare il contrario.
Ilaria Aversa
Foto di Raffaele Iorio
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