L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
L’articolo è frutto di un discorso da me ipotizzato partendo dagli scritti di Walter Benjamin.
“Mi chiamo Walter Benjamin e sono venuto al mondo sul finire dell’Ottocento, quando esisteva la carta ed esisteva anche l’inchiostro, quando per scrivere serviva una mano che continuava anche se stanca.
Non ho vissuto a lungo, ma a lungo le mie idee sono rimaste.
Quando andavo a scuola ero quel tipico studente a cui si chiedeva la pronuncia del cognome. Oggi tra i banchi delle università ci sono i miei libri e gli studenti spesso mi chiamano nel modo sbagliato: ma io li perdono, sono stato studente anch’io. Se c’è una cosa di cui sono certo è che non bisogna mai dimenticare quello che siamo stati.
Nel corso della mia vita ho scritto un saggio, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica l’ho intitolato, in cui racconto il cambiamento della riproducibilità dell’arte. Quest’ultima è sempre stata riprodotta, è vero, ma nel tempo sono cambiate le modalità e le motivazioni per e con cui questo si faceva: si è assistito al passaggio da un lavoro artigianale, quindi fatto da uomini, a uno fatto da macchine. Ecco allora una riproduzione tecnica.
Prima le opere d’arte venivano create da un artista che lavorava in un tempo e in un luogo unici, un qui e ora inimitabile, un hic et nunc autentico. Girava intorno a quell’opera unica al mondo un’aura, un significato, un’atmosfera di originalità che oggi si va sempre più disperdendo. L’opera d’arte entra così in un processo differente, che non pone più al centro l’artista ma il mercato: viene ridotta a merce di scambio e consumo. Essa non ha più un valore eterno, non viene più tramandata di padre in figlio bensì diviene acquistabile.
Poniamo un esempio, il cinema, e differenziamolo dal teatro.
Prendiamo due attori e immaginiamoli a lavoro.
Un attore di cinema gira la stessa scena tantissime volte e tantissime volte corrisponderanno ad un’infinità di interpretazioni diverse, anche se per un piccolo particolare. Però, quando noi ci sediamo al cinema e guardiamo un film, vediamo solo e soltanto una di quell’infinità di interpretazioni, una scelta e selezionata da qualcun altro per noi.
Al contrario, un attore di teatro, nonostante il tentativo di rendere identici i vari spettacoli, in ogni occasione varierà per un minuscolo particolare, forse anche impercettibile ai nostri occhi.
Secondo me, dunque, l’attore di cinema perde l’aura ed entra in quel processo di riproducibilità in cui entra anche un quadro, una canzone o un libro quando non si differenzia più, quando il minuscolo errore di un uomo o di una donna non sono più possibili perché al loro posto c’è una macchina perfetta, incapace di fare errori.
Secondo me gli errori erano fondamentali.
Questo, però, ha anche un lato positivo: l’arte diventa accessibile a più persone alle quali in precedenza era preclusa, grazie alla moltiplicazione sempre più esponenziale della sua riproduzione e quindi all’abbassamento dei prezzi.
Ho sempre creduto che uno dei principali compiti dell’arte sia quello di creare esigenze che in quel momento non è in grado di soddisfare, di lasciare sempre qualcosa in sospeso, di far mancare un battito ai cuori che la osservavano.
Qui dove sono ora, di artisti ne ho incontrati tanti e in tanti ai miei racconti hanno avuto un balzo, un dispiacere, un’espressione tanto ambigua dal non saperla descrivere. A Michelangelo è anche uscita una lacrima, al pensiero della sua Cappella buttata via perché ormai vecchia.
Tranquilli, gli ho detto che ancora piangete anche voi quando la guardate.
State attenti, non fatelo soffrire, ormai ha una certa età e non può gestire certe notizie.
Fate i bravi con l’arte.”
Martina Casentini
Vedi anche: L’artista che si è finta milionaria per scattare foto