Perché l’Iran non deve bruciare
Non sono mai stata in Iran. L’Iran è, per me, uno di quei paesi lontani, misteriosi, un preludio a quel fitto abisso affascinante dai nomi altisonanti come Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan. Un paradiso? Un inferno? Lande desolate dalle culture antiche, immense, incomprensibili?
Forse la vera altra parte del mondo, sconosciuta e inconoscibile. Non una meta estiva, una grande capitale, un’escursione avventurosa, ma solo dubbio, tante domande, un richiamo dal profondo nulla a cui miei occhi corrono, nel tentativo fallito di immaginare, riconoscere, formulare.
Eppur quelle terre – alle quali accosto le tinte più chiare dell’arancione, un vento secco che fende piacevolmente il volto, il silenzio assoluto dell’indicibile, di una parola talmente antica da essere stata dimenticata, un suono irriproducibile – sono reali, esistono al di fuori dei planisferi e della poesia fantastica con la quale vengono erroneamente identificate. Sono terre, terre di natura, di deserti, di monti, di pianure e valli; sono terre di concimi, di bestiami e vegetazioni, di animali domestici e animali selvaggi, di agglomerati umani e città urbanizzate, di violenze e bellezze, disuguaglianze e lotte; sono terre di popoli e persone, di umanità, di storia.
Non sono mai stata in Iran, né sono in grado di immaginarlo credibilmente, verosimilmente. Forse è meglio così, quando lo visiterò sorprenderà il mio sguardo ad ogni sosta, la sete di sapere ardente ad ogni passo. Non importa, tuttavia, che un paese abbia o meno visto la mia presenza per potermene interessare, per potermi iniziare ad esso.
L’Iran è, nelle ultime ore, terreno di disguidi, potenziali dichiarazioni di guerra e bombardamenti da parte degli Stati Uniti d’America, attualmente sotto la presidenza di Donald J. Trump. Non siamo qui ad indagare le ragioni geopolitiche, a criticare aspramente le decisioni della politica estera del presidente americano, o a chiederci quanto petrolio ci sia in Iran e chi andrebbe a goderne nel caso di crisi internazionale. Non siamo qui a prendere parti, a giudicare il governo della Repubblica Islamica dell’Iran, a disquisire sull’uccisione del generale Soleimani.
Ci importa, abbiamo un’idea, ma non è nostra necessità doverla esprimere ad ogni costo, perché spesso i fatti e la loro gravità, le potenziali perdite hanno la propria voce e qualsiasi altro mezzo d’espressione la vanificherebbe, la trasformerebbe.
L’Iran – possiamo avervi accesso con una semplice ricerca su Google – è un paese meraviglioso, il cui suolo non è delle tinte più chiare dell’arancione, ma delle sfumature più matte del rosso. I colori, inoltre, sono mille, duemila: siamo nell’antica Persia, non dimentichiamolo. Possiamo passeggiare tra le rovine di Persepoli, visitare la magnifica Isfahan, con la gigantesca piazza Imam Khomeini, una delle più grandi del mondo. Le cupole, le moschee, le raffinatezze architettoniche e storiche di questa piazza colgono l’essenza dell’estetica locale. È tutto, interamente, patrimonio dell’UNESCO.
La Moschea del Venerdì, antichissima e rifinitissima, rappresenta un livello altissimo di maestria decorativa; il lavoro meticoloso dietro l’intagliatura dello stucco, i disegni precisissimi, il profilo che svetta sul panorama cittadino. Yazd, con i suoi tremila anni di storia, si trova tra due deserti e fu il luogo di nascita della filosofia zoroastriana, il cui lascito sono le torri del silenzio. Potete salirci, ammirare l’Iran dall’alto, in tutta la sua ricchezza. Il deserto, le sue dune, i suoi fossi e le ombre, è percorribile da chiunque voglia avventurarvisi.
Vale la pena, per un qualsiasi ideale pseudo – democratico, motivazione politica – economica – interna o esterna che sia – attentare all’esistenza di bellezze così antiche, frutto di fatiche per noi probabilmente inquantificabili, inimmaginabili? Andare a disturbare la quiete millenaria delle sabbie, delle montagne, della natura? La risposta potrà sembrare banale – se non banalissima – al limite di ciò che è definibile come intelligenza, ma potendo avere accesso alle informazioni attuali posso affermare con decisione che – evidentemente – non lo è a sufficienza.
Il discorso politico, sempre sulle bocche di tutti, passa – forse ingiustamente – in secondo piano rispetto alla portata di questa minaccia, della possibilità concreta di perdere la storia, la memoria, l’ambiente, la vita. L’Iran è solo l’acuminata, dolorosa punta di un iceberg che rappresenta la negligenza globale nei confronti dell’arte, dell’aria, della vita umana e animale, della solidarietà e della compassione per esseri simili e dissimili. È vano sperare – e anche scrivere – ma il tentativo di riflettere e far riflettere, di informare e diffondere pensiero è l’unico mezzo, l’unica arma con cui preservare la libertà di vivere, tollerare, amare.
Non ho mai visto l’Iran, ma spero che sarà ancora intatto e bellissimo, quando finalmente potrò farlo.
Sveva Di Palma