Viaggio nella poesia di Mariangela Gualtieri
“Siamo un essere qui, perenne navigare di sostanze da nome a nome. Siamo”.
Il 2019 ha visto la pubblicazione dell’ ultimo libro della poetessa di Cesena Mariangela Gualtieri, la raccolta “Quando non morivo”, accompagnata da un breve tour in cui l’artista ha presentato le sue poesie in alcuni teatri d’Italia.
Assistere alla piccola, piccolissima Mariangela farsi largo sul palco – spesso anch’esso piccolo, piccolissimo come lei – è un’esperienza particolare, fragile. È difficile immaginare come possa una donna così minuta, dai movimenti così gentili e lenti, farsi contenitore di poesia per un pubblico.
Non sembra il veicolo più funzionale, immediato, per l’espressione di sentimenti coinvolgenti, volti a cogliere l’attenzione di una massa. Come si porta la poesia a teatro, poi? Come si trasferisce un’arte nell’altra, e soprattutto, può la poesia restare poesia facendosi recitazione? Va recitata la poesia in teatro? Quante domande, invece di affidarsi semplicemente a chi sulla carta è grande, gigantesca.
Quando Mariangela Gualtieri prende la parola, avvicinandosi al microfono, qualsiasi dubbio viene eliminato, ogni pensiero annichilito da una potenza indistruttibile ed innegabile. La piccola donna viene sostituita da una moltitudine di immagini, da una lettura profonda e appassionata di versi bellissimi, il suono della sua voce è una canzone dolcissima e terribile, che ti colpisce ad ondate di senso ed emozione.
Mariangela Gualtieri porta al lettore e allo spettatore un approccio alla scrittura carnale ed etereo al contempo, una commistione di ermetico e prontamente fruibile, digeribile. Il fulcro dei suoi libri – per quanto diluito e dilatato in molteplici tematiche, miste e differenti tra loro – è sempre stato l’aspetto amorevole, compassionevole e grato dell’esistenza, un elogio al mondo nelle sue infinite gradazioni.
Sia in Bestia di gioia (2012) che in Le giovani parole (2015), la vita viene soppesata, analizzata in ogni sua intercapedine celata e buia; come una lanterna che illumina senza accecare, la parola rischiara e riscalda gli anfratti bui e riempie di calore gli angoli rimasti soli, abbandonati da troppo tempo.
In Quando non morivo, del 2019, appunto, il tema della vita e della sua riscoperta abbraccia un’ambizione più ampia, che protende le sue mani trepidanti e sature d’amore verso una collettività, una ginestra leopardiana che rincorre e accomuna l’umanità tutta. La poesia è un abbraccio universale, che sottolinea ed esalta la diversità ma anche la condivisa confusione dell’uomo nel suo sentirsi perduto, nel suo essere uno.
La copertina del libro raffigura i versi emblematici del messaggio portante dell’opera, mostra il suo cuore, il suo contenuto più importante. Non per questo, però, svela il mistero dietro la raccolta tutta. Anzi, questo suo sfacciato comunicare con il fruitore serve solo a toccarlo, a lasciargli presagire la dolcezza di questo viaggio che a quel cuore arriva ma parte da altrove, da un luogo molto lontano da lì.
Quella parola poetica è una parola dunque performativa, nata per il teatro e ivi condotta. La parola in Mariangela Gualtieri non si distacca dal suono, ma si connette ad esso in un nodo unico di significante e significato, una stretta inscindibile e originaria. La Gualtieri parla nel suo ultimo lavoro di “noi”, noi razza umana, noi creature delicate e mortali, terrene ma stiracchiate verso l’eterno. Leggiamo insieme la poesia :
“Subito si cuce questo niente da dire
ad una voce che batte. Vuole
palpitare ancora, forte, forte forte
dire sono – sono qui – e sentire che c’è
fra stella e ramo e piuma e pelo e mano
un unico danzare approfondito,
e dialogo
di particelle mai assopite, mai morte
mai finite.
Siamo questo traslare
cambiare posto e nome.
Siamo un essere qui, perenne navigare
di sostanze da nome a nome. Siamo. “
L’ ambizione avvolgente e altissima di questa arte vuole allargarsi ad un pubblico che non è interessato alla mera capacità di scrittura o alla commozione superficiale, dovuta al riconoscimento e all’empatia d’impatto.
Il “siamo”, il “noi” serve a toccare le radici, il nucleo di ideali che scolpisce la nostra identità di creature viventi, accomunate dalla voglia e alla necessità di vivere, codificata nel nostro DNA, nella nostra grammatica di base.
È estremamente complesso riuscire a ricreare l’instabile, la mutevolezza e la coerenza di questo bisogno di vita incorreggibile, inesplicabile. Mariangela Gualtieri è senza dubbio una poetessa della tradizione, legata a forme linguistiche classicamente stabilite, a forme accademiche riconoscibili, ma con altrettanta certezza è la poetessa della modernità, del femminile inteso in senso attuale, del male moderno abbarbicato con prepotenza a pregiudizi e assiomi obsoleti, figli di una voce che è morta tempo fa ma ancora riecheggia, incapace di accettare la propria fine.
La Gualtieri è progressista nel senso meno polarizzato, meno estremista del termine, lo è perché la sua arte è vera, è in evoluzione, cangiante. Rispecchia la contemporaneità senza forzatamente soddisfarne le aspettative, entra nei propri tempi con la lentezza ed il ritmo necessario, di cui ha bisogno per potersi formare.
La lettura del suo libro, e della sua bibliografia tutta, è un viaggio fiabesco e gioioso nel dolore e nella ferita dell’essere, un dito nella piaga delicatissimo e tenace, capace di risvegliare un inconscio atavico e collettivo, solidale e inarrestabile. Una volta intrapreso questo iter, sarà difficile tornare indietro, senza vedere il mondo attraverso una lente di gentile riconoscenza e ottimismo.
A tutti gli appassionati di poesia, auguro buona lettura.
Sveva Di Palma