Harvey Weinstein e la vittoria del #metoo, o quasi
Sono passati quasi 3 anni da quella famosa inchiesta e dal boom mediatico del #metoo. Solo l’11 marzo, però, Harvey Weinstein è stato condannato definitivamente a 23 anni di prigione. Ma ripercorriamo le tappe.
Chi è Harvey Weinstein? Un produttore cinematografico di fama mondiale che ha fondato case di produzione come la Miramax. Politicamente attivo, fino al 5 ottobre 2017 è uno dei principali finanziatori del Partito Democratico e sostenitore dei diritti delle donne. Scrivo “fino al 5 ottobre” perché fu proprio quello il giorno in cui il New York Times pubblicò un’inchiesta basata su interviste a dipendenti e documenti legali che mostravano varie denunce per molestie sessuali.
La risposta mediatica non tardò ad arrivare, il 15 ottobre Alyssa Milano scrisse un tweet in cui incoraggiava le donne ad usare l’hashtag #metoo per denunciare le molestie ricevute sul posto di lavoro. Questo motto, però, risale al 2006, quando i social erano meno diffusi e un’attivista per i diritti umani, Tarana Burke, lo usò per la prima volta in relazione agli abusi sessuali. Inutile dire che il post di Alyssa in un giorno riscosse centinaia di migliaia di consensi, ma fu anche oggetto di critica da parte di molti, che lo consideravano solo come un’arma per abbattere vip e candidati politici.
Per Harvey Weinstein, però, ancora nessuna azione legale, fino al maggio 2018, quando venne arrestato, per poi essere rilasciato sotto cauzione, a causa delle accuse di stupro di due donne: un’assistente e un’aspirante attrice. Il processo terminato in questi giorni nasce proprio da ciò. Iniziato il 6 gennaio 2020 a New York, il produttore ha dovuto difendersi da 5 capi d’accusa: uno di atti sessuali criminali, due di stupro e due di atti da predatore sessuale, la pena massima di quest’ultimo è l’ergastolo. A capo della difesa una donna, Donna Rotunno, esperta di casi di molestia sessuale.
La conclusione? Quella l’ho già scritta, 23 anni per Harvey Weinstein, accusato di stupro e molestie sessuali da un totale di 105 donne: ha basato la sua difesa sul negazionismo, ovviamente, convincere il giudice che tutti gli atti erano consensuali. 23 anni sono un simbolo, non esiste condanna giusta o sbagliata, non sono un’esperta di diritto, ma posso scrivere che è una piccola vittoria. Una piccola vittoria per un movimento nato dal nulla e grazie a cui probabilmente molte ragazze hanno avuto la forza di denunciare, una piccola vittoria per quelle donne che ancora subiscono violenze sul luogo di lavoro e si licenziano, non riuscendo mai a dire la verità, per paura forse, o perché è troppo doloroso anche solo parlarne, una piccola vittoria per noi, perché possiamo ancora confidare nella giustizia, una piccola vittoria per Tarana Burke, perché senza di lei non ci sarebbe stato nessun #metoo.
Angela Guardascione
Vedi anche: Apologia degli sport snobbati: parliamo di canoa polo