Un rewatch de Il Padrino è “un’offerta che non puoi rifiutare”
Il 15 marzo di 48 anni fa cinema e teatri d’oltreoceano proiettavano in anteprima mondiale Il Padrino, il primo capitolo di una trilogia che non ha bisogno di presentazioni.
Scrivere di un cult che in 2 ore e 55 minuti ha segnato le sorti della settima arte è un meraviglioso onere, che esige una buona dose di responsabilità, cura e il potente ausilio di Nino Rota ad accompagnare con le sue note la danza delle dita sulla tastiera.
Ci sarebbero tanti aneddoti da raccontare sulla genesi mitologica di questo kolossal – tra le marachelle sul set dell’epico Marlon Brando al turbolento rapporto tra regia e produzione, perennemente in disaccordo sia in fase di scritturazione dei personaggi che durante la realizzazione stessa della pellicola – ma la grandiosità di questo capolavoro pittoresco, a metà tra la Grande Mela e la campagna corleonese, mette d’accordo tutti con la sola forza inquieta di un sguardo dell’allora semi-sconosciuto Al Pacino, o con i sussulti strazianti di Don Vito, il vecchio patriarca sul viale del tramonto pronto a cedere le redini del suo impero mafioso. E basterebbe anche solo l’incipit di un brano qualsiasi della sognante colonna sonora per rievocare la potente grammatica di passioni architettata dal visionario Francis Ford Coppola.
Il primo dei tre capitoli della saga, tratta dal romanzo di Mario Puzo, è forse il più classico dei classici, un affresco imperituro che attraverso l’equilibrio visivo di tinte fosche dal sapore gangster e calde pennellate di terra siciliana – studiato dal genio della fotografia Gordon Willis – ci porta per mano nel magma emotivo della malavita, facendoci sedere a tavola con Sonny, Fredo e Tom, durante gli affollati pranzi di famiglia in cui il malaffare è taboo, e infiltrandosi nelle iconiche tavole rotonde con i “pezzi da novanta”, i vertici loschi dei clan italo-americani con cui contrattare i termini del business illecito di droga e gioco d’azzardo. L’epica saga dei Corleone si snoda così tra la banalità di rituali familiari solenni come una funzione religiosa e l’eccezionalità di una condotta cruenta ma necessaria, un codice d’onore che detta violenza e innesca un loop di “vendetta” (da leggersi rigorosamente con accento americaneggiante). Coppola ci fa sbirciare in questa materia umana così blindata, nella sensibilità ambigua del crimine, fatta di passioni violente e contraddizioni, che dichiara amore alla chiesa ma non manca di ossequiare l’onnipotenza di una rivoltella, di piegarsi all’urgenza di un sanguinoso agguato. Ed è proprio la tragedia emotiva di queste sculture-personaggio, divise tra una legge ereditaria peccaminosa e un’esaltata comunione con il divino, a regalare straordinarietà.
Indimenticabile è Don Vito che oscilla tra il tono intimidatorio con cui apostrofa i suoi sicari – accompagnato dal ghigno animalesco della sua mascella da bulldog – e la commovente fragilità di padre che piange la morte del figlio Santino, trucidato in un’imboscata. Così come memorabile è la rituale metamorfosi di Michael, terzogenito sradicatosi dall’impero familiare e arruolatosi nell’esercito, che profana la sua esemplare vita da newyorker accanto a Kay, una Diane Keaton nel fior fiore della giovinezza e ancora ignota all’olimpo hollywoodiano, per arrendersi al ruolo che il destino ha disegnato per lui nella dinastia Corleone. L’intrecciarsi di sacro e profano, amore ligio e morale assassina, è un motivo antico che attraversa i sotterranei di tutte e tre le pellicole, che carica di drammaticità ogni silenzio omertoso e problematizza gli scambi con chi è estraneo alla cerchia di delinquenza.
Epica è la scena finale in cui la candida Kay, neosposa del novello godfather, viene confinata fuori la porta, mentre il rituale di passaggio scandito da inchini e baciamano si consuma davanti al suo sguardo sofferto. Fino all’ultimo secondo Coppola non celebra il crimine né stigmatizza l’italianità mafiosa, ma ce ne restituisce la tragica umanità, scava nei dubbi taciuti e nei dilemmi amletici del gangster, diviso tra necessità imperanti e una latente fragilità. Una lotta all’ultimo sangue che l’eclettismo del regista realizza visivamente in uno dei momenti più alti che il cinema ci abbia mai regalato: il montaggio incalzante che fa viaggiare la macchina da presa tra il battesimo del nipote di Micheal, figlio della sorella Connie, e le esecuzioni dei cinque capifamiglia rivali per mano dei suoi sicari, scandisce la resa dei conti con i tradimenti passati e fa sussultare la coscienza divisa del padrino in ascesa. La formula benedicente del sacerdote si sovrappone al terrore degli spari. Acqua santa e proiettili si mischiano in un crescendo di cupa tensione e spettacolare drammaticità che riassume tutta la complessità di questo universo criminale, così ancorato ai suoi valori colpevoli e alle sue affascinanti contraddizioni. Da qui la poesia di questo classico intramontabile così inverosimilmente realistico e l’attrattiva dei suoi protagonisti irresistibili, complessi, impossibili.
48 volte grazie Francis!
Francesca Eboli
Vedi anche: Furore: sulla Route 66 con Popolizio