Una storia… a pois! I puntini colorati, da Minnie a Yayoi Kusama
Prima dell’avvento di Twitter (una piattaforma all’interno della quale hanno preso forma una moltitudine di neologismi) e prima di Instagram (dove invece cercare le più trendy novità sartoriali), c’era Godey’s Lady’s Book. In un’edizione del 1857, uno degli editori descrisse un foulard, ideale “per essere sfoggiata in calde serate estive”, come “circondato da un bordo ricamato a file di pois tondi”.
Scrisse non pois, come siamo abituati a chiamarli noi, in verità, ma “polka dots”, una terminologia che metteva semplicemente insieme due cose particolarmente popolari all’epoca, la danza polka e quei famosi puntini disposti geometricamente nello spazio – i pois (che non ebbero mai niente a che fare con la polka, tra l’altro, ma finirono per essere successivamente associati ad un altro tipo di danza: il flamenco).
Sebbene non fosse una novità adornare le stoffe con fantasie “a puntini”, i pois non divennero una moda realmente sostenibile fino alla fine del XIX secolo e all’avvento della Rivoluzione Industriale, quando le macchine resero possibile stampare su larga scala e con una spaziatura fissa quei cerchietti colorati. La moda era improvvisamente diventata accessibile, ed i pois erano all’ultimo grido.
Esattamente come l’industria della moda, anche il mondo dell’arte stava in quel periodo attraversando un momento di cambiamenti epocali e decisivi. Mentre la gente esibiva le sue fantasie a pois nell’abbigliamento, qualcosa di simile avveniva sulla tela con il Puntinismo. Sarebbe quasi romantico affermare che in questo caso anche l’arte si fece contagiare dalla moda, ma in realtà i puntini ravvicinati tipici dei puntinisti seguivano una visione ben diversa.
Nel dipinto “manifesto” del movimento, Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte, Georges Seurat esplora le teorie scientifiche sulla visione e la luce in voga a quell’epoca: le donne, gli uomini, i bambini che adornano la sua tela sono infatti formati da centinaia di migliaia di minuscoli puntini estremamente ravvicinati – in ogni caso, i critici trovarono i suoi sforzi “esagerati”, “troppo rigidi”, “troppo scientifici”, e coniarono il termine Puntinismo per prendersi gioco di lui.
Seurat, comunque, pur utilizzando questa tecnica, considerava i suoi minuscoli pois come un mezzo per raggiungere un fine – per mimare il modo in cui il cervello umano mette insieme macchie di colore e assegna loro un significato unendole in un’immagine coesa. Nella moda, invece, i pois erano sufficienti: non c’era bisogno che creassero nient’altro, per significare qualcosa. Negli anni ’20 del ‘900, i polka dots cominciarono a comparire ovunque: lenzuola, beni di consumo, camice da notte – soprattutto femminili: lo scrittore Jude Stewart sostiene che fu la semplicità del pattern, assieme alla sua capacità di creare movimento, a rendere così facile associarlo al femminile.
I polka dots cominciarono a comparire sul grande e sul piccolo schermo: nel 1928 apparve Topolina col suo vestitino rosso a pois bianchi, e nel 1934 ne indossò una anche Sherley Temple per le sue giravolte in Stand Up and Cheer. Nel 1940 Frank Sinatra registrò “Polka Dots and Moonbeams”, e da allora il pattern è stato scelto da personalità del calibro di Marilyn Monroe, Lucille Ball e, più recentemente, Julia Roberts in Pretty Woman, consacrando il pois come qualcosa di intrinsecamente femminile ed innocentemente sexy.
Gli artisti, da parte loro, non hanno perso tempo a riconoscere il potenziale giocoso, creativo, della fantasia. Già negli anni ’60 una giovane artista giapponese, Yayoi Kusama, cominciò a servirsi dei pois come di un vero e proprio oggetto all’interno della sua produzione: per Kusama, il pois divenne un potente simbolo e un motivo decorativo ricorrente, come nelle sue gioise installazioni in cui enormi polka dots abitano lo spazio disordinatamente. All’esatto opposto troviamo i lavori della pittrice Bridget Riley, con le sue palette monocrome e le sue stampe vagamente “pizzicate” per creare illusioni ottiche che ricordano gli esperimenti di Seurat e dei puntinisti.
Ma il vero erede di Seaurat può essere considerato l’artista pop Roy Lichtenstein, che utilizzava la tecnica dei punti cosiddetti Ben Day per creare ritratti della vita moderna in uno stile che verrà poi riconosciuto come fumettistico. I suoi lavori stilizzati sono ingannevolmente leggeri: con un unico movimento, Lichtenstein stava prendendosi gioco dell’iconografia americana e, contemporaneamente, elevandola a mito.
Più recentemente, l’artista rockstar Damien Hirst è conosciuto anche per il suo uso dei pois – o delle macchioline, per usare la sua terminologia. Hirst ha utilizzato la fantasia già in alcuni lavori degli anni ’80, ma è stata la serie “Veil Pantings” a portare alla luce la sua capacità di utilizzare il pattern.
In Manhattan Suicide Addict, Yayoi Kusama scrive: “Il polka dot ha la forma del sole, che è un simbolo di energia e potenza, e ha la forma della luna, che è simbolo di calma. Tondo, soffice, colorato, insensibile ed inconoscibile… i pois diventano movimento – sono una via verso l’infinito”.
Marzia Figliolia