Sono le 17:56 di una calda giornata di maggio.
Verso Capaci l’autostrada A29 si apre con un boato inaudito, inghiottendo l’uomo divenuto simbolo della guerra al potere di Cosa Nostra.
L’epilogo di una storia che vide un uomo e la sua intelligenza sfidare la mafia come nessuno aveva mai fatto e che tutti noi dovremmo sempre ricordare.
Ogni giorno, non solo il 23 maggio.
Non ho immagini nitide di quel pomeriggio. Avevo quattro anni.
Ad ogni anniversario c’è sempre chi dà fondo ai propri ricordi, io invece non so dirvi cosa stessi facendo. Probabilmente ero a casa, a giocare con i mattoncini lego perché i cartoni animati in TV erano finiti da un pezzo.
L’edizione straordinaria del Tg1 raccontava la strage praticamente in diretta, mostrando lo sgomento delle prime persone giunte sul posto, inorridite dalla brutalità dei 200 chili di tritolo che hanno sventrato centinaia di metri di asfalto, trasformato le tre auto blindate in scatole di latta.
Eppure nessun ricordo di quel 23 maggio 1992.
Mi immagino lì, nella mia cameretta, inconsapevole di quello che stava accadendo.
In un’Italia già barcollante per l’inchiesta Mani Pulite chedoveva ancora rivelare a pieno la propria portata, la mafia vincente di Totò Riina aveva deciso di alzare il livello della sfida allo Stato, vendicando l’impunità perduta “per colpa” del magistrato che aveva osato sfidarla.
Chi allora non c’era o chi come me non era abbastanza adulto ha probabilmente tratto dai racconti dei familiari e dalle celebrazioni che ogni anno marcano questa data, l’idea che Giovanni Falcone sia stato un eroe.
“Soltanto lo spirito di servizio” diceva con quel suo sorriso malinconico. Un paladino dello Stato, simbolo dell’enorme senso del dovere che tutti dovremmo avere.
Come lui, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta Antonio Montinari, Rocco Di Cillo e Vito Schisano. Non basta un anniversario per ricordarli.
Disegno e didascalia di Simone Passaro